ora sono un armonioso paesaggio silenzioso e innevato. immutabile e incorrompibile da grida e schiamazzi d’ogni sorta. niente e nessuno mi può avvicinare, niente e nessuno può macchiare il mio splendido manto bianco. distante da tutto quanto. distante da tutti.
per star bene, verrebbe da pensare, basterebbe che non esistessero sofferenze del fisico o dell’animo. basterebbe che nel nostro paesaggio interiore non soffiassero i venti chiamati ansia, inquietudine, preoccupazione, angoscia, timore. l’assenza di simili venti dovrebbe garantirci il benessere, la presenza dovrebbe negarcelo. penso a un periodo della mia vita, la mia stagione dell’inquietudine. nel mio animo soffiavano mille di quei suddetti venti, bufere e burrasche imperversavano ma… non posso dire che stavo male. ricordo quel periodo con piacere. a quei tempi ero un paesaggio carico di colori intensi, atmosfere plumbee, fiamme di falò a rischiarare notti corredate di danze e tamburi. non c’era staticità eppure non stavo male. mmmmmm non stavo male… non so se potete capirmi. soffrivo e sguazzavo in acque angosciose ed elettriche eppure ricordo con piacere quell’anomala crociera sofferente. la cosa di cui mi compiaccio è che nonostante navigassi in quelle acque, all’esterno tutto era apparentemente quieto. elogio del pagliaccio. puro talento naturale. in questo sono stato aiutato dalle mie pagine, la mia valvola di sfogo. tornavo a casa e mi accoltellavo, versavo fiumi di sangue e forti colori accesi su quelle pagine. appena misi il punto sull’ultima paginetta ricordo che sentii subito la mancanza di quelle pagine. mi piace pensare che se rimbaud ha avuto la sua stagione all’inferno io ho avuto la mia stagione dell’inquietudine.
penso che nonostante ami dilettarmi con le parole, alla fin fine non riesca a scrivere d’altro che non di me stesso. inventare storie che non mi appartengono non è proprio il mio forte. amo raschiare il fondo del mio animo, questo sì. e se nel mio fondo ci fossero solamente limpidi ruscelli incantati e uccellini cinguettanti, be’ credo che ciò che salterebbe fuori sarebbe alquanto monotono. perlomeno sarebbe monotono raschiare il fondo. e probabilmente farei parte di quella mediocrità che tanto aborro. dio me ne scampi. elogio dell’intima sofferenza. non so se potete capirmi.
per star bene, verrebbe da pensare, basterebbe che non esistessero sofferenze del fisico o dell’animo. basterebbe che nel nostro paesaggio interiore non soffiassero i venti chiamati ansia, inquietudine, preoccupazione, angoscia, timore. l’assenza di simili venti dovrebbe garantirci il benessere, la presenza dovrebbe negarcelo. penso a un periodo della mia vita, la mia stagione dell’inquietudine. nel mio animo soffiavano mille di quei suddetti venti, bufere e burrasche imperversavano ma… non posso dire che stavo male. ricordo quel periodo con piacere. a quei tempi ero un paesaggio carico di colori intensi, atmosfere plumbee, fiamme di falò a rischiarare notti corredate di danze e tamburi. non c’era staticità eppure non stavo male. mmmmmm non stavo male… non so se potete capirmi. soffrivo e sguazzavo in acque angosciose ed elettriche eppure ricordo con piacere quell’anomala crociera sofferente. la cosa di cui mi compiaccio è che nonostante navigassi in quelle acque, all’esterno tutto era apparentemente quieto. elogio del pagliaccio. puro talento naturale. in questo sono stato aiutato dalle mie pagine, la mia valvola di sfogo. tornavo a casa e mi accoltellavo, versavo fiumi di sangue e forti colori accesi su quelle pagine. appena misi il punto sull’ultima paginetta ricordo che sentii subito la mancanza di quelle pagine. mi piace pensare che se rimbaud ha avuto la sua stagione all’inferno io ho avuto la mia stagione dell’inquietudine.
penso che nonostante ami dilettarmi con le parole, alla fin fine non riesca a scrivere d’altro che non di me stesso. inventare storie che non mi appartengono non è proprio il mio forte. amo raschiare il fondo del mio animo, questo sì. e se nel mio fondo ci fossero solamente limpidi ruscelli incantati e uccellini cinguettanti, be’ credo che ciò che salterebbe fuori sarebbe alquanto monotono. perlomeno sarebbe monotono raschiare il fondo. e probabilmente farei parte di quella mediocrità che tanto aborro. dio me ne scampi. elogio dell’intima sofferenza. non so se potete capirmi.