è un
pomeriggio privo di data, fuori un grigiore luminoso, sole caldo estivo dietro
un cielo che finge di essere autunnale, aria calda, mi vengono in mente i
pomeriggi estivi di qualche secolo fa, quand’ero adolescente, a quei tempi i
pomeriggi estivi erano interminabili, duravano decine e decine di ore, non
finivano mai, uscivi, ti sedevi in qualche angolino di cemento baciato
dall’ombra e chiacchieravi distrattamente con la consapevolezza che davanti si
prospettavano decine e decine di ore di aria calda e scenografia da paesino
immerso in una siesta, uno di quei paesini dei film western, tranquilli e
soporosi almeno fino a quando non arrivano i cattivi a sconquassare quel velo
di apatia. in giro c’eravamo solo noi adolescenti, stravaccati per terra,
immersi nello stagno della nostra noia giovane e distaccata. la sera, dopo una
doccia, ci si abbigliava in maniera dignitosa, una manciata di gel sui capelli
e ci si tuffava nel mare della gente, alla scoperta e alla ricerca di
quell’universo che rimescolava continuamente gli ormoni nelle nostre vene,
l’universo femminile. ma durante quei pomeriggi vestivamo panni trasandati,
pantaloni di tute ginniche tagliati con le forbici, pantaloncini da calcio,
magliette vecchissime e scolorite, eravamo in un angolino di cemento baciato
dall’ombra, la civiltà non ci interessava. ora quei pomeriggi sono lontani,
accantonati in un angolino all’ombra della memoria.
ora sono
stravaccato sul pavimento bianco, abbigliato in maniera splendidamente
incivile, la civiltà è chiusa fuori oltre la finestra, loreena mckennitt
nell’aria ombrosa del mio salotto, vedere questo pomeriggio che pensa ai
pomeriggi che dicevo poc’anzi mi fa pensare al vecchio e il mare di Hemingway.
stravaccato in un angolino di bianco baciato dall’ombra di un tetto perduto tra
un milione di tetti tutti uguali e rossicci e accaldati. mi alzo per bere da un
grande calice di vetro dell’acqua tiepida, l’acqua fresca di un frigorifero
sarebbe troppo civile, sorseggio l’acqua e mi spingo fino al corridoio dove c’è
uno specchio, vedo un vecchio e un giovane, mi sorrido, un sorriso in bianco e
nero, mi siedo nuovamente sul pavimento, abbraccio le mie ginocchia e poso su
di esse il mento, osservo queste parole che sono tante goccioline che
compongono una nuvola che muta forma, cresce, s’ingigantisce, volteggia alta
perduta in un angolino di cielo di un lungo pomeriggio d’estate.
rileggo
le parole scritte poco fa e non cambio nemmeno una virgola, se cambiassi anche
solo una parola non sarei più io, penso a quanto adoro scrivere “in presa
diretta”, penso quanto possa essere interessante per voialtri leggere di me che
sto seduto sul pavimento, penso ciò e vado avanti. mi viene in mente ora una
storia letta in un romanzo, tempo fa, probabilmente una storia inventata
dall’autore del romanzo: Salvador Dalì e sua moglie Gala sono vecchi e
innamorati, possiedono un coniglio a cui sono molto affezionati, il coniglio
non si separa mai da loro. Dalì e Gala sono in procinto di partire per un
viaggio e discutono su cosa fare del coniglio, sarebbe un problema portarselo
dietro per tutto il viaggio e sarebbe un problema affidarlo a qualche persona
di fiducia in quanto il coniglio si fida solo di loro e con altre persone
diventa schivo e introverso. il giorno successivo Gala prepara il pranzo, i due
si siedono a tavola e mangiano di gusto almeno fino a quando Salvador si rende
conto che ciò che sta mangiando è carne di coniglio. allora corre in bagno e
vomita la carne di quella che era la sua adorata bestiolina. Gala invece si
sente soddisfatta perché ha interiorizzato la bestiolina, ora l’adorato
coniglietto faceva parte di lei e le accarezzava le viscere, ciò che aveva fatto
con quel coniglio era molto più che fare l’amore. non so perché mi sia venuta
in mente ora questa storia ma così come mi è saltata in mente così l’ho
riversata su questa pagina, scrivere in presa diretta, adoro farlo.
associazione
libera d’idee: pensando al coniglio di Dalì e Gala mi viene in mente una cosa
che mi fa tornare ai tempi degli interminabili pomeriggi estivi adolescenziali.
a quei tempi uno dei nostri miti era il film antropophagus, un b-movie uscito
nel 1980 e che un mio amico si era procurato in vhs. in questo film c’è una
scena, che ci faceva ridere parecchio, in cui un mostro si ciba di un feto e,
alla faccia dei moderni effetti speciali, il feto dilaniato dal mostro era
vistosamente un coniglio senza pelle eheheh. fine dell’associazione libera
d’idee.
cambio
cd e a loreena mckennitt succede suzanne vega, il telefono rimane sempre spento
e nero, entra nella stanza un’arietta calda soffiata dal mondo che vuole
ricordarmi la sua esistenza, come se non fossero sufficienti i rumori degli operai
che lavorano alla costruzione di una palazzina poco distante. c’è una canzone
di suzanne vega intitolata the queen and the soldier. è un lungo dialogo tra un
soldato che non vuole più combattere per la sua regina perché non comprende più
il senso della guerra. il soldato si reca nel castello dove dimora la sua
giovane regina e, una volta accolto da lei, cerca di spiegarle che non
combatterà mai più perché ora aborrisce la guerra e non ne comprende il senso.
la regina ascolta e sembra triste sotto la sua bella corona dorata. tutto
farebbe supporre un finale romantico invece, alla fine della canzone, il
soldato lascia la stanza della regina e “altrove qualcuno obbedisce agli ordini
della regina e uccide il sodato”. ho sempre apprezzato quel finale disincantato,
dal sapore terribilmente realistico e inimmaginabile. per un attimo sorrido
perché, facendo un miscuglio dei miei pensieri, vedo la giovane regina che si
butta a terra e dilania con i denti un coniglio scuoiato e sanguinolento.
da un
po’ di tempo dormo male e i miei sogni ne risentono, sono così numerosi e
frammentati, incompleti pezzettini d’immagini poco fantasiose, mi mancano quei
bei lunghi sogni così simili a film slargati e melodiosi come le salmodie delle
processioni estive religiose. anziché prolungati e ispirati lungometraggi il
mio inconscio produce tanti spot pubblicitari. se ogni tanto il mio inconscio
non si risiede sulla sedia da regista giuro che lo prendo a calci nel culo.
prendere a calci nel culo il proprio inconscio. una perversione degna del più
spirituale dei leopold von sacher masoch che abbiano mai calcato questa terra.
mi alzo, accendo una sigaretta, sorseggio un poco d’acqua tiepida dal calice di
vetro a buon mercato e mi sgranchisco ancora le gambe gironzolando per la casa
come un sonnolento leone in gabbia. così come l’acqua del bicchiere anche il
pavimento è tiepido e anche l’aria che entra dalla finestra. le lancette
dell’orologio alla parete girano decisamente a rilento, forse sono riuscito a
ricreare uno di quei pomeriggi estivi adolescenziali. ho creato dal nulla,
nella sacralità delle mie pareti, uno stralcio di adolescenza. mi sento quasi
come il dottor frankenstein. o il dottor jekyll. doppia erezione letteraria.
una sirena, no niente di mitologico, una sirena d’ambulanza mi distrae dai
pensieri sui miei sogni. come diavolo osa un’ambulanza rompere la quiete del
mio pomeriggio estivo adolescenziale? chi diavolo osa stare male nel mio
pomeriggio estivo adolescenziale? non lo saprò mai. o semplicemente in
quell’ambulanza non c’era nessuno. la sofferenza ci pone faccia a faccia con la
nostra solitudine. quando soffriamo il nostro dolore si frappone fra noi e le
altre persone come una specie di cuscinetto, un’intercapedine che attutisce le
voci, le carezze, le parole di conforto. vabbe’, io il contatto con la mia
solitudine non lo perdo mai ma io sono, grazie a Dio, un caso disperato. la mia
solitudine, la mia bellissima solitudine figlia della mia tristezza che è
figlia della mia diversità, la mia solitudine io la chiamo la mia splendida
dama ottocentesca. la mia splendida dama ottocentesca è così bella e premurosa
nei miei confronti, non mi abbandona mai, come penso spesso “mi accompagnerà
fin dentro la fossa”. quando sarò in punto di morte la mia splendida dama
ottocentesca mi darà il più bel bacio della mia vita, ne sono sicuro. Lei, pur
essendo esclusivamente mia e solo mia, è anche così universale, credo sia la
mia vera madre. credo potrei essere geloso di Lei. si può essere gelosi solo
delle cose preziose che ci appartengono così intimamente. come diceva lo
scrittore, la gelosia è una malattia dell’anima. mai vorrei curare la mia
anima, me la porterò così com’è fin dentro la fossa. dopotutto, se non è
oppressa dal cerone e dal nasino rosso, la mia anima è in grado di produrre
miele come un’ape indisturbata. be’, si fa per dire.
mi
distoglie dai miei pensieri il rumore dell’ascensore che giunge al mio piano.
la tizia dell’agenzia che tenta di affittare l’appartamento adiacente al mio.
sonoro clicheggiare della chiave nella serratura e, la parete che separa il
soggiorno in cui ora mi trovo dall’appartamento suddetto, probabilmente è
sottile quanto la membrana timpanica di una farfalla, un attimo dopo aver
spalancato la porta ecco la tizia dell’agenzia che pronuncia la più
prevedibile, inutile e poco fantasiosa frase della storia dell’umanità: “ecco,
questo è l’appartamento!”. una simile mancanza di fantasia sarebbe un motivo
più che valido per andare via senza neanche vedere l’appartamento. l’assenza di
fantasia per un’anima credo sia come l’assenza di ali per una farfalla. “ecco,
questo è l’appartamento!”. la fantasia della tizia dell’agenzia è probabilmente
più arida del sahara senza neanche una piccola oasi di cervellotica visione
fantastica. mi auguro che l’appartamento adiacente al mio resti ancora sfitto
per due o tre secoli, a meno che non lo affittino tre o quattro giovani ragazze
svedesi che un giorno suoneranno alla mia porta chiedendomi lo zucchero o il
sale ed io spalancando la mia porta rivelerò “ecco, questo è il mio
appartamento!”. se non puoi avere una vicina di casa geniale o almeno
estremamente intelligente che sia almeno alta, bionda e svedese. abbandono le
mie scandinave fantasie immobiliari e mi alzo per sgranchirmi nuovamente le gambe.
a piedi nudi sulla sabbia del mio deserto personale. non ci sono persone nel mio deserto. diceva lo scrittore che la solitudine è il campo da gioco di satana. mi viene in mente una canzone di polly jean harvey “… sono nata nel deserto, ci sono stata per anni… … ho scalato le montagne, attraversato i mari, mi sono fatta cacciare dal paradiso, mi sono fatta umiliare, mi sono dovuta inginocchiare, ho preso in giro il diavolo, maledetto il buon dio, distrutto il paradiso…”. una tizia che curò la prefazione ad una mia raccolta di parole mi fece notare che quando scrivo uso spesso la parola e l’immagine del deserto. decisamente vero. devo essere nato nel deserto o devo comunque esserci stato per anni. poi come un meteorite sono caduto in un mondo in cui imperano balli latinoamericani, stupide finzioni televisive, banali personcine simili a ritagli di carta che temono ogni folata di vento. s’illudono che attorniandosi di altri ritagli di carta diventino invulnerabili alle raffiche di vento. le parole. le parole altro non sono che folate di vento nel deserto.
a piedi nudi sulla sabbia del mio deserto personale. non ci sono persone nel mio deserto. diceva lo scrittore che la solitudine è il campo da gioco di satana. mi viene in mente una canzone di polly jean harvey “… sono nata nel deserto, ci sono stata per anni… … ho scalato le montagne, attraversato i mari, mi sono fatta cacciare dal paradiso, mi sono fatta umiliare, mi sono dovuta inginocchiare, ho preso in giro il diavolo, maledetto il buon dio, distrutto il paradiso…”. una tizia che curò la prefazione ad una mia raccolta di parole mi fece notare che quando scrivo uso spesso la parola e l’immagine del deserto. decisamente vero. devo essere nato nel deserto o devo comunque esserci stato per anni. poi come un meteorite sono caduto in un mondo in cui imperano balli latinoamericani, stupide finzioni televisive, banali personcine simili a ritagli di carta che temono ogni folata di vento. s’illudono che attorniandosi di altri ritagli di carta diventino invulnerabili alle raffiche di vento. le parole. le parole altro non sono che folate di vento nel deserto.
Nessun commento:
Posta un commento