sabato 30 aprile 2011

il racconto di Eugene

Eugene premeva i tasti bicolori seguendo uno schema astratto che proveniva dalla sua mente e nessun altro poteva vedere, nell’aria arancione del soggiorno, baciato dall’alba, sfarfallavano le note dell’aria che il compositore tedesco, con le variazioni Goldberg, aveva smontato e rimontato per trenta volte con scrupoloso estro e matematica esattezza, le note gustose senza sbavature erano decise micropennellate senza esitazione, erano numeri che si libravano nell’aria e danzavano leggeri e ordinati come minuscole ballerine diligenti. Scesi nella stanza con occhi gonfi di buio, pieni ancora di sonno non evaporato. Badando a non far troppo rumore accesi il fuoco nel camino con alcuni ramoscelli secchi, accesi il fornello per il caffè pensando che in pochi potevano fare ciò mentre a pochi metri un pianista suonava le variazioni Goldberg. La luce lentamente si rafforzava e trafiggeva le finestre, la sonnolenza si diradava creando quello stato in cui il corpo ancora non è a pieni giri, un motore appena acceso che ha bisogno un poco di scaldarsi, quello stato che ti porta ad immergerti nei tuoi pensieri senza neanche accorgertene. Il resto della ciurma dormiva ancora, le raffinate note pianistiche giungevano con garbo e discrezione nel piano superiore, come una luce tenue che si fa largo attraverso grandi tende immacolate. Le assi della scala, scricchiolanti sotto il peso di padre Carhal che scendeva col suo vestaglione di lana scozzese, mi destarono da quel torpore, torpore che scomparve del tutto quando padre Carhal, con totale noncuranza della musica, col suo vocione baritonale ruppe ogni indugio col suo “buongiorno anime sveglie!”.
Con fare poco ortodosso, l’omone in vestaglia bordeaux a quadri era alle spalle del pianista, gli rifilò una robusta manata sulla schiena che fece deragliare il fiume di note che si ergeva dal piano “Dai Eugene, il caffè è pronto, vieni a tavola”.
“Racconta al nostro amico come sei finito nel mio reparto…”.
Eugene, piccolo visino da formichina bianca attorniato da una criniera di capelli spettinati, con voce flebile ma decisa incominciò: “I miei genitori erano entrambi morti quando ero ancora un infante, mio padre in un incidente, mia madre dopo pochi giorni si uccise e tentò di uccidere anche me incendiando la casa, ma mi salvai. Ero poco più che adolescente, vivevo con due mie zie in un piccolissimo paesetto, angusto e attillato come una famiglia sempre troppo presente e soffocante, tutti si preoccupavano troppo di cosa pensavano tutti, il pensiero individuale era continuamente piantonato dalla domanda “chissà cosa ne penseranno gli altri?”. Studiavo al conservatorio, ero un bravo ragazzo, di quelli che salutavano tutti per strada. Sentii ad un certo punto crescere, espandersi il mio carattere, divenire troppo grande e indipendente per quei confini paesani. E appresi il significato della parola “pregiudizio”. Inizialmente la mia voglia di essere un tantino più libero degli altri fu coperta dalla mia buona reputazione, lentamente però cominciai a divenire “strano”, “bizzarro”, “eccentrico” e infine “matto”. C’era una ragazza che mi piaceva tantissimo, frequentava un gruppo di beceri coetanei ed io pensavo che era troppo bella per essere come loro, pensavo che dovevo fare qualcosa per sottrarla a quello squallore mentale, avrei potuto iniziarla al mondo della musica, chissà. Una volta presi coraggio, la fermai per strada e le dissi “non puoi continuare a frequentare quelle persone, tu sei diversa, sei così bella, voglio salvarti da questa miseria..”, imbarazzata e un po’ confusa mi rispose “… veramente… non saprei… bè, grazie… ci penserò… ciao “. Era bellissima, da vicino lo era ancora di più, l’avrei salvata, avrei liberato un angelo da quella fanghiglia che gli impediva di spiccare il volo e raggiungere il cielo, l’avrei restituita alle nuvole, alle stelle, l’avrei fatta nuovamente volare innalzandola con le note dell’appassionata di Beethoven, della D960 di Schubert, dei notturni di Chopin, degli studi di Debussy”.
La scala scricchiolò ancora, comparve una figura pelata e grassoccia che con andamento ciondolante scendeva i gradini, il vocione di padre Carhal tuonò come un trombone “prendi il caffè e vieni qui a tavola Itzhak, Eugene sta raccontando la sua storia…”. La faccia assonnata dell’uomo si arrotondò in un sorriso “E’ già arrivato alla palestra?” “ancora no, ancora no…” rispose padre Carhal.
Mentre Itzhak il violinista si sedeva con noi, il racconto di Eugene riprese con la medesima voce di prima “Il giorno dopo aver parlato con la bellissima ragazza, mentre camminavo per strada fui additato da un gruppetto di ragazzi “ecco il salvatore, il salvatore di ragazze mascherato!”, mi fissavano sghignazzando e capii che il bellissimo angelo aveva rifiutato il mio aiuto. Da quel giorno la parola “il salvatore” e le risatine beffarde mi accompagnarono per strada.” La scala di legno non scricchiolò sotto il lieve peso di Viola che scese, pallida di sonno, si mise a tavola seduta accanto a me, poggiò la testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi sussurrandomi “mò brucia tutto quanto!” e si accoccolò sul mio braccio come un cucciolo che dorme nella propria tana.
“Tutti i ragazzi del paese” proseguì Eugene “erano in tumulto per la festa che si sarebbe tenuta quel giorno nella palestra comunale, musica pietosa, birra scadente, snacks e stuzzichini di bassa qualità. Le ragazze si scambiavano pareri su come si sarebbero vestite, i ragazzi fantasticavano sui fiumi di birra che sarebbero scorsi, io aspettavo che fossero le 17. Il giorno precedente avevo dato dei soldi al tizio che si sarebbe occupato della musica, gli avevo spiegato che si trattava di uno scherzo e che lui alle 17 in punto doveva alzare il volume e mettere il cd che gli avevo consegnato. Alle 16,50 entrai in palestra, mi guardai attorno ma nessuno badava a me, le ragazze cinguettavano, i ragazzi strillavano facendo i buffoni. Con la bottiglietta che mi ero portato bagnai un pochino con della benzina alcune grandi tende, poggiai per terra, sotto il tessuto inumidito, delle piccole candeline che lasciai momentaneamente spente. Guardai l’orologio, 16,59. Feci il mio breve giretto lungo le pareti e accesi le mie piccole candeline. Uscii con apparente indifferenza, presi la spranga che avevo preparato e bloccai l’ingresso dall’esterno. Aspettai. In pochi secondi si diffusero prima vocine stridule poi grida sempre più numerose, sempre più disperate, intanto iniziò a suonare ad alto volume, maestoso e imponente, il preludio e fuga in mi minore BWV 548 di Johann Sebastian Bach. Un bagliore arancione sfavillava dalle finestre, attesi qualche minuto, lasciai che l’organo chiudesse la magistrale composizione e aprii il portone, fuoriuscì fumo e vario e indistinto materiale umano un poco intossicato, colpi di tosse e spavento nell’aria, il mio scherzetto era riuscito, pensai. Più tardi però venni a sapere che alcuni ragazzi si erano feriti tentando di uscire da un’alta finestra posta a circa tre metri su una parete della palestra, uno rimase infilzato da uno spuntone di vetro e ci lasciò le penne. Inutile fu spiegare che avrei voluto solo fare uno scherzetto magari un pochino pesante, tutti mi diedero del mostro, del maniaco e così finii nel reparto del nostro caro padre Carhal…”.
“Ah ah ah ah! Il nostro pazzo salvatore piromane!” esclamò Itzhak dando una pesante pacca sulla spalla a Eugene che sorrise, e sorrise anche padre Carhal, mi aggiunsi anch’io e quella giornata cominciò con un sorriso ed una buona tazza di caffè. Viola, la sua testa poggiata sul mio braccio, dormiva come un pallido angelo desolato.

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