Nessuno al mondo è solo quanto me. Sono
completamente, meravigliosamente sola. Un isolotto bianco di marmo in un mare
urbano di cemento. Senia e Lara non le vedo da un sacco di tempo. Ancora da più
tempo non esco all’aria aperta. Ancora da più tempo non esco all’aria aperta
durante il giorno. Mentre il sole fa il suo lavoro scorrendo lento nel cielo,
io affogo in artificiali sonni chimicamente indotti. Dieci, dodici ore di
ininterrotto sonno senza insegne luminose. Sono un pallido pipistrello
diciannovenne alto un metro e settantaquattro. Attendo che il tramonto si
annulli nella vorticosa voragine della notte incombente, mi scolo una birra
accendo una sigaretta una sorsata di jack dalla bottiglia, accendo la voce di
Thom Yorke che canta per me idioteque, altro bacio alle vetrose labbra di jack,
indosso jeans converse nere t-shirt nera e giubbino in pelle nera, alzo il
volume altra sorsata di jack e altra sigaretta. Esco. Cammino per strada senza
incontrare nessuno, forse ci sono persone per strada ma non m’interessa vederle
e non le vedo, non vedo nessuno. Cammino sino al Rock Island, mi soffermo
davanti all’entrata per fumare una sigaretta, una manciata di ragazzi
chiacchiera e ridacchia stupidamente, all’interno sento suonare cherry lips dei
Garbage. Entro. Passo davanti al bancone, ordino patatine fritte e una media
rossa, saluto Jim Morrison Patti Smith Jimi Hendrix David Bowie Janis Joplin
Mick Jagger tutti in bianco e nero appiccicati alla parete, do un’occhiata alla
sala semibuia e mi dirigo nel tavolino più isolato, mi siedo dopo aver gettato
il giubbotto sul divanetto di pelle bordeaux. Arriva la ragazza con la mia
media rossa e le patatine mentre suona alta roll with it degli Oasis. Una
sorsata di rossa con fare distratto mangio patatine, sul tavolino di legno
qualcuno ha inciso “Angela sei una troia”, il mormorio delle persone sparse nei
tavolini è soffocato dalla penombra e dalla musica, ora suonano i Ramones,
finisco la birra, sono bellissima e solitaria nel mio tavolino, ordino un’altra
media rossa, Angela starà scopando chissà con chi, svogliata mangio qualche
altra patatina tiepida, sono sola e voglio stare sola, mando mentalmente a quel
paese il mondo intero ingurgitando una mega sorsata di birra, sono un pallido
pipistrello solitario. Sono. Un pallido. Pipistrello. Solitario. Passo alcune ore al mio tavolino, ogni tanto approda
qualche ragazzo che abbandona momentaneamente la sua insulsa compagnia per
tentare di approcciare la vostra Cry che con gelido e cortese distacco respinge
la mediocrità ambulante. Esco, fumo una sigaretta, rientro e passando dal
bancone ordino un irish coffee, un amaro, un rum e una tequila, arriva la
ragazza col vassoio, sorride posando i bicchieri sul tavolo, i Pearl Jam con
even flow, l’alba ancora lontana, una di queste notti tornerò qui con le mie
due amiche, stanotte sono troppo gelida anche per loro, ho voglia di
galleggiare solitaria sulla notte per tornare a casa poco prima che spunti il
sole, tornare a casa e crearmi una mia notte capovolta. Arriva puntuale
roadhouse blues cantata da Jim, scolo i miei bicchieri, prendo una penna dalla
tasca del giubbotto, scrivo nel mio avambraccio “sono un pallido pipistrello
solitario” poi schiaccio la punta della penna contro la pelle, premo forte
senza bucare, sorrido passandomi le dita tra i capelli, penso che tra qualche
giorno dovrei andare a fare spese dal mio pusher farmacologico, mi sento bella
e gelida e senza sangue. Vado in bagno, quando esco mi dirigo al bancone, mi
siedo sullo sgabello e dico al tizio dietro al bancone “quattro tequila”, lui
che mi conosce non commenta e prepara la fila di bicchierini che scolo
meccanica e veloce, ringrazio il tizio per non avermi rivolto la parola
accennando un sorriso sommesso, parte space oddity di Bowie, torno al mio
tavolino, prendo penna e un foglio di carta dal giubbotto e scrivo “la gente
che mi attornia è un banco di pesciolini rossi muti che tagliuzzerei volentieri
con fredde forbici affilate, vorrei che iniziasse a piovere, vorrei camminare
sotto una pioggia blade runner, vorrei rinfocolare la solitudine di questa
notte con cristalli di ghiaccio e indifferenza. Sono un pallido pipistrello solitario”.
martedì 30 ottobre 2012
venerdì 26 ottobre 2012
Jim Morrison
Continuano ancora a vedermi come un pagliaccio vestito di
pelle nera, il mio volto dagli zigomi pronunciati e la mia chioma leonina la
vedo in un’infinità di poster, magliette, adesivi appartenenti a gente che non
ha la più pallida idea di chi ero, di cosa ero. D’accordo, ero anche quello, un
luccicante ingranaggio dello show business. Nessuno mi vede mai nella
solitudine di una scalcinata stanzetta, mentre tranquillamente leggo per ore,
in silenzio. O mentre trascrivo i parti della mia mente, fecondata da letture,
film e da qualche acido. Una delle cose che affascina la gente è la mia
inclinazione all’autodistruzione. Probabilmente, in primis, perché è una cosa
contro natura. Normalmente la gente si fa in quattro per mantenere bassi i
livelli di colesterolo nel sangue o cose così. Poi perché la violenza da sempre
attrae le persone, ben lo sapevano gli imperatori romani che per farsi
benvolere organizzavano i loro giochini. Vedere una persona che si fa del male,
che si brucia temerariamente, affascina la gente. Io, anziché uccidermi, o
farmi uccidere dalla vita, ho deciso di uccidere la vita. Dovevo scrivere
canzoni, fare servizi fotografici, interviste, trasmissioni tv, spettacoli
vari? Bevevo efferatamente per restare me stesso, per non diventare un prodotto
per famiglie benpensanti, carino e preconfezionato. Era un modo di chiudermi in
me stesso mentre, allo stesso tempo, deflagravo come un vulcano con variopinti
zampilli provenienti dal magma della mia mente. Un esempio di come la vita
cerca di ucciderti? Quel cazzo di processo, che succhiò così tanta linfa dalle
mie vene. Oppure tutte quelle stronzatine che subdolamente ti inculcano sin
dalla nascita, lavorare sodo per comprare tutte le cose che loro ti dicono di
comprare, per diventare come loro ti dicono che devi diventare. Ed io bevevo,
sempre, continuamente, sempre. Mi piacerebbe parlarvi di cosa provavo nel fare
musica, del mio periodo parigino, di come mi prendevo gioco di chi faceva un
sacco di soldi attraverso la mia immagine, sapete, c’era sempre un pizzico
d’ironia in tutto quello che facevo. Poi mi piacerebbe parlarvi di Pam. Ma lo
spazio concessomi è finito.
lunedì 22 ottobre 2012
interstellar overdrive
oohhhh… da non so quanto
tempo ascolto in cuffia (le meravigliose bose da 120 euro che mi hanno
prestato) interstellar overdrive, dal primo album dei floyd. in continuo
repeat, stupefacente smarrimento ricco di lancinanti e stellari suoni
dissonanti, strillante delirio siderale composto dal mio amico syd barrett…
scrivo queste righe col suono che mi infilza piacevolmente il cervello e
l’animo e le membra e tutto il resto… distorte grida astrali, uno di quei
momenti in cui sovviene il pensiero “nessuno può capire…” … il circo è così
lontano, gli umani terribilmente diversi, i miei occhi ricettivi come luminosi
spilli conficcati nel più fondo nero che si possa immaginare… trovo difficile
persino scrivere con il suono che mi trapassa come una lama lucente e affilata,
volume elevato, immagini sonore esuberanti e potenti come accecanti ruggiti
cosmici… scrivo e pubblico così come mi viene, senza ragione, senza pensare, la
pelle etereo pregiato tamburo sconclusionato… syd, uno dei miei eroi…
P.S.
se qualcuno leggendo prova a
cercare e ascoltare la canzone su youtube giuro che lo uccido. cd e cuffie e
occhi chiusi. bon voyage
sabato 20 ottobre 2012
Mi sveglio, senza preoccuparmi se nel cielo ci sia
il sole o la luna. Mi sveglio con in bocca il saporaccio di molteplici ore di
robusto sonno chimicamente indotto. La pelle che mi riveste il corpo è bianca e
fredda, lo sguardo è quello di una moderna bella addormentata nelle profondità
di una caverna ghiacciata. Per chissà quanto tempo resto seduta sul letto con
lo sguardo perso nel vuoto, il mio sguardo nero, la mia pelle bianca,
tutt’attorno il vuoto. Mi alzo, il pavimento bianco avverte il freddo dei miei
piedi scalzi. Sono più pallida del solito, il sangue che dovrebbe scorrermi
nelle vene dev’essere andato a farsi un giro tra le pieghe dei miei sogni
imprigionati nel mio inconscio. Scolo una mezzo litro d’acqua, accendo una
sigaretta, lo stereo mi regala una potente e colorata e pirotecnica crystalline
di Bjork. Sono di una gelida bellezza disarmante. Tra poco probabilmente mi
vestirò ed uscirò a fare due passi nel vostro cazzo di mondo. Adesso mi guardo
allo specchio e sono semplicemente bellissima. Sono. Semplicemente. Bellissima.
mercoledì 17 ottobre 2012
Baudelaire
Dicono che in letteratura io abbia inventato la
modernità. Semplicemente ho fatto quello che facevano gli artisti romantici
davanti ai tramonti, i mari in tempesta, la luna, i boschi. Solo che io vivevo
in città. Uno scrittore, uno scrittore che si rispetti intendo, come prima cosa
“vede”, “sente”, percepisce ciò che gli sta attorno, senza fare calcoli, come
quando passiamo davanti ad una bancarella di un fioraio, o ad una latrina, e
sentiamo il profumo, o la puzza, senza dover fare niente, abbiamo il naso e
questo ci basta per avvertire l’odore. In città sentivo ovunque l’odore dei
vizi, della miseria, della povertà, della bellezza, della morte. Non ho fatto
altro che tradurre queste cose, anzi scolpirle nel marmo della scrittura. Il
poeta davanti alle normali incombenze della quotidianità soffre, il suo talento,
la cosa per cui è nato, che gli riesce meglio, è filtrare la vita attraverso la
sensibilità del suo animo, deve essere libero di sguazzare nei profondi abissi
della sua solitudine. Posto in queste condizioni sarà in grado di emozionare,
dipingere immagini che suscitano sensazioni, scaldano cuori, ravvivano gli
animi, raggelano le vene, forgiano incubi e sogni. Il poeta è come un albatro,
l’uccello dalle grandi ali che spesso sorvola le navi. Le sue grandi ali gli
permettono di librarsi alto nel cielo con mirabile bellezza ma, se gli capita
di cadere sul ponte di una nave, proprio quelle sue ali così grandi lo
renderanno buffo e sgraziato e sarà dileggiato dagli uomini dell’equipaggio.
Proprio per via delle sue grandi ali, il poeta, quando è costretto a vivere tra
la gente, non può fare a meno di sentire quell’acuminato malessere romantico,
quel malessere, quel morbo che mi ha reso famoso come il poeta maledetto per
antonomasia. Se volete sapere delle mie inquietudini, del mio lato maledetto,
vi prego, lasciatemi stare. Tuttalpiù potete rivolgervi ad una persona che ora
sta qui con me. Raffinato e dotato scrittore come pochi, in quanto a
maledizioni, oscurità e tenebre dell’anima nessuno è mai stato al suo livello.
Non dite che vi mando io, non si sa mai come potrebbe prenderla. Ah, il suo
nome è Edgar Allan Poe.
giovedì 11 ottobre 2012
in
questo momento mi sento alieno e dannato come ai tempi de La mia stagione… il
mio scafo corroso dall’aria salmastra ed io che gioco facendo scorrere le dita
sulle crepe del legno… ho voglia di esalare parole liberamente, la mia valvola
di sfogo, la mia pugnalata nel costato… mi bagno nella mia infanzia, mi specchio
nel mio Io… un’elettrica corrente carnale attraversa un iceberg cosmico,
notturno e magnificamente antiquato. mi cullo sui flutti immerso nello spazio
che mi distanzia dal pubblico accalcato sugli spalti, l’unico volto che
riconosco è quello della mia splendida dama ottocentesca. azzero i confini dei
pensieri che mi parlano dolci, leggiadri come cigni che nuotano in nere acque silenziose…
ho volutamente dimenticato di gettare l’ancora, la notte sbiadita mi accompagna
in un’indecifrabile cerimonia in cui risuona l’acuminato profumo del ghiaccio
metallico, argentato sperma universale… nudo e smagrito il mio corpo quasi
morto sorride avvolgendomi come una pellicola che pulsa con lentezza straordinaria…
mmmm cosa stavo dicendo?
venerdì 5 ottobre 2012
Syd Barrett
C’è
chi dice che mi sono completamente bruciato il cervello con gli acidi e le
droghe, chi dice che il seme della follia era nel mio dna e sarebbe comunque
germogliato, chi mi considera un meraviglioso e folle menestrello psichedelico. Sempre tutti pronti a cercare spiegazioni, giustificazioni, che noia. La verità
è che l’anima, così come la vita, va semplicemente vissuta, punto e basta,
cercare di appiccicarci sopra etichette è solo un’inutile perdita di tempo. La
stragrande maggioranza delle persone è così grigia e noiosa, incatenata dalla
sua stessa volontà. La gente ha paura della libertà e si rifugia in un
confortante e anonimo conformismo, si mimetizza per non essere una nota stonata
nello spartito dell’ampio belato comune. Tutte pecorelle timorose. Io sono nato pecorella colorata e non ho cercato di tinteggiarmi il vello di bianco,
semplicemente non mi sono sforzato di mimetizzarmi, punto e basta. Me ne sono
sempre infischiato di quello che voleva la gente, ero una rockstar e la gente
voleva canzoni, album, concerti, io ad un certo punto mi sono ritirato nel mio
scantinato a dipingere enormi tele che regalavo agli amici o a dedicarmi al
giardinaggio. Volevano che producessi musica che avrebbero venduto, a me andava
di prendermi cura delle mie piante e facevo quello, l’anima, così come la vita,
va semplicemente vissuta. Le catene sono così opprimenti, è sorprendente come
la gente vada a cercarsele da sé, l’anima è come un uccello, è dotata di ali, è
fatta per volare, e la gente fa di tutto per trascorrere una vita intera chiusa
in gabbia. Se proprio volete un’etichetta, una giustificazione per la mia
follia, credo che sia dovuta proprio al fatto di sentirmi un uccello libero in
un mondo di uccelli ingabbiati, mi sono ritrovato completamente solo, isolato
nella mia libertà, nei miei cieli alti, nei miei colori, e non ho cercato di
evadere dalla mia solitudine, mi ci sono immerso perché così mi andava di fare.
E se questa è follia, be’, chiamatela pure come vi pare, a me non importano i
vostri giudizi, le vostre etichette. Ho volato alto, sono stato libero, ho
scelto di non essere incatenato, di non vivere ingabbiato e, di conseguenza,
sono stato sempre tremendamente solo.
martedì 2 ottobre 2012
in molti racconti, molte
storie, c’è un amico del protagonista che rappresenta la perdizione, il vizio,
quello che nel medioevo veniva etichettato come “vivere nel peccato”, una sorta
di povero diavolo sfortunato insomma, che distoglie il protagonista dalla retta
via e lo induce a percorrere i binari della dissolutezza, lo induce a rovinare
sempre tutto quanto, come lucignolo, tanto per capirci. io quell’amico ce l’ho
dentro, fa parte di me e vive in un angolino oscuro del mio animo. il suo
dimorare in me è spesso silenzioso, sta in disparte senza disturbare ma è
pronto, di tanto in tanto, a ricordarmi che la soffice tranquillità comoda
comoda non fa per me. tenersi a distanza dalla confortante serenità comporta un
certo carico di tormento ma, diceva il filosofo “io lodo tutto ciò che
indurisce, non lodo i luoghi in cui burro e miele scorrono a fiumi”. sono una
creatura nata bruciata, lo ripeto spesso e ogni volta lo dico con un certo
sorriso un po’ dolce, un po’ amaro, un po’ non-so-cosa. la mia splendida dama
ottocentesca è nella stanza con me, ora, mi osserva e mi aspetta. tra poco mi
dedicherò solo a Lei e mi abbandonerò alla sua premura. nessuno, probabilmente,
camminerà mai al mio fianco. a parte Lei. quando penso al circo, alla necessità
di fare una vita da pagliaccio, come contraltare mi viene in mente il guardiano
di un faro sperduto in un mare di orizzonte silenzioso. in campo letterario
invece, l’immagine che mi si affaccia nella mente è quella di una specie di
guardia forestale che trascorre alcuni mesi in una torretta per l’avvistamento
di incendi, una torretta come un faro immersa in una foresta, orizzonte fatto
di montagne e bosco, un lago, daini e cerbiatti e uccelli. il protagonista vive
appieno la sua solitudine, con il suo fuoco per scaldare il cibo, la sua
ricetrasmittente attraverso la quale per un’ora al giorno entra in contatto con
i colleghi sparsi chissà dove nel territorio. tra desiderio della normale vita
sociale, galoppanti fantasie erotiche o spirituali, immagina persino delle
intere partite di baseball, le immagina fin nei dettagli, ciò che emerge è
soprattutto una meravigliosa solitudine (per la cronaca il romanzo s’intitola
“angeli di desolazione”). mmmmm basta scrivere, m'immergo nel mio orizzonte fatto del mio buio, del mio bosco...
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