venerdì 9 luglio 2010

altra notte. stesso balcone, stessa ragazza. lei “a questa notte manca soltanto il mare, sentire il ritmico e flebile alitare del mare, ora, con te, su questo balcone, non avrebbe eguali”. entrambi siamo accanto alla ringhiera metallica, con i palmi delle mani poggiati sul ferro. lei si volta verso di me “faresti una cosa per me?” la guardo in silenzio, i miei occhi imperturbabili esprimono incondizionata condiscendenza, lei continua “se te lo chiedessi, mi spingeresti giù dal balcone?” fa una breve pausa fissando il bosco e, sempre con lo sguardo fisso davanti a sé “ è una cosa che sogno di fare fin da bambina… un volo… un salto incosciente e sfrontato…. mi ha sempre frenato la paura… la paura dell’attimo prima di toccare il suolo, la paura di quell’attimo di estrema lucidità…” io “ non credo di poterti garantire quell’attimo di serenità che vai cercando…”. i nostri sguardi si toccano, ci baciamo. la bacio nonostante le nostre bocche non si siano ancora toccate. il bacio comincia qualche attimo prima che le bocche entrino in contatto, c’è un momento, carico di magica alchimia, in cui due anime si baciano, anche se le due bocche ancora non sono un tutt’uno. quell’attimo, forse, è l’essenza del bacio, il resto è un’umida conseguenza di quell’attimo di magia.

assaporiamo l’essenza di quel bacio (presumo lo faccia anche lei) senza accostare le nostre labbra. i nostri sguardi ora sono più fluidi. lei “ti rendi conto che non sappiamo niente l’uno dell’altra? ciò rende questa situazione surreale…” io “ non credo ci sia bisogno di sapere qualcosa l’uno dell’altra per stare qui, stanotte, in questo balcone. ci diciamo quello che ci va, il resto sarebbe vano chiacchiericcio estivo”. lei “ti rendi conto che potremmo anche non vederci mai più? ed io non so nemmeno come ti chiami…” io “parole da donna, e il mio ruolo di uomo mi suggerirebbe parole improntate ad un risoluto e dignitoso cinismo alla umphrey bogart eheheheheh” sorrido con dolce accortezza e, qualche istante dopo, i muscoli del mio viso appianano gradualmente le sfumature di quell’impercettibile sorriso. “nel frigo della mia camera” fa lei “ho una bottiglia di vino rosso, ti andrebbe se la portassi qui?”. io, con espressione serissima “parole più audaci e geniali, ora, non potevi pronunciare. ti aspetto…”. si allontana ed io, in un baleno, mi dissocio mentalmente dal mondo, dalla ragazza, dalla bottiglia di vino. completamente solo, Solo. sulla sedia, le gambe dritte e divaricate, le punte delle dita delle mani tutte in contatto tra di loro, i palmi staccati come se stringessi un’invisibile palla sospesa a mezz’aria. la presenza della ragazza è assolutamente piacevole eppure, ora, assaporo avidamente la solitudine, forse perché si tratta di un’ effimera solitudine con i secondi contati, “la bellezza delle cose mortali” penso, o forse la verità è che sono realmente e semplicemente un amante della Solitudine? si avvicina col suo leggerissimo vestitino bianco, la chioma rossiccia e la pelle placcata di una discreta doratura estiva, in una mano la bottiglia di vino piena per tre quarti, nell’altra due piccoli calici di vetro che involontariamente fa tintinnare due o tre volte, mentre cammina. grazie a Dio non pronuncia frasi stupide e banali tipo “ti sono mancata?”. mi porge un bicchiere mezzo pieno, lei prende l’altro ma non beve, forse aspetta che sia io a fare il primo sorso, poi mi dice “ti andrebbe se ti dicessi quando partirò, quando andrò via? o ti andrebbe di dirmi quando partirai tu?” bevo un sorso e lei fa altrettanto, io “ se fossimo in pieno giorno forse sì, ma un po’di mistero ben si addice ad una notte come questa”. il suo viso diventa malinconico, si dedica silenziosamente al suo bicchiere e lo svuota, io faccio altrettanto poi mi alzo e le prendo una mano, invitandola ad alzarsi. la conduco davanti alla ringhiera del balcone, i nostri fianchi e le gambe poggiati sul metallo, mi avvicino a lei cingendole la vita con il braccio. restiamo un po’ così, in silenzio. penso ad alcune cose che mi detto “ti rendi conto che potremmo anche non vederci più? alla bottiglia di vino, alla domanda “ti andrebbe se ti dicessi quando andrò via?”, probabilmente andrà via domani, penso. e penso anche che se ci scambiassimo i numeri, se decidessimo di incontrarci ancora, sicuramente non ci sarebbe questa stessa, soffusa magia quasi incantata. restiamo così, appoggiati contro la ringhiera, la mia mano sul suo fianco. io sto bene così, ogni parola, ogni decisione, ogni falsa speranza sarebbe ora una spiacevole presenza. restiamo così, in silenzio, davanti alla notte, la nostra notte.

giovedì 1 luglio 2010

notte calda e sudata. poco fa qualcosa mi ha fatto pensare. una persona tremava di paura, soffriva per qualcosa di assolutamente inesistente e intangibile, qualcosa che esisteva solo nella sua mente. quella persona soffriva, si vedeva, la sua sofferenza era ben visibile nel suo sguardo, nelle sue parole, nei suoi tremori. però non c’era niente di reale che la facesse soffrire. dunque la sofferenza era una sua idea.non sono le cose in sé a farci soffrire bensì l’idea che noi ci siamo fatti di quelle medesime cose. finalmente la musichetta ballabile di qualche vicina festicciola paesana si è spenta. ora sento l’infernale frastuono che fanno gli aironi. ebbene sì, dal balcone del mio posto di lavoro posso vedere, oltre alla luna, anche gli aironi cenerini. fanno un tremendo baccano di notte, come un concerto di un coro vocale di rospi grandi come mucche. chissà se quando fanno così stanno facendo l’amore, litigando, giocando o semplicemente conversando amabilmente. mentre ero sul balcone ho immaginato che una persona, visto che si trattava di una mia fantasia ho pensato ad una bellissima ragazza, mi si avvicinasse con garbo per condividere lo stralcio di notte che avevamo davanti. “posso?” . considerata la bellezza della ragazza la risposta possibile poteva essere una sola “sì, certo, prego…”. fosse stata brutta, la risposta sarebbe dipesa dalla mia, più o meno forte, momentanea tendenza alla solitudine. “a cosa pensavi?”. “alla sofferenza, al fatto che spesso le cose che ci fanno soffrire non esistono ma la sofferenza è una conseguenza della nostra visione delle cose”. balle! in realtà, poco prima che la ragazza si avvicinasse, non pensavo ad un bel nulla, fissavo beatamente il cielo grigio-pesante senza nubi. ma quando ci chiedono a cosa pensiamo, spesso tendiamo a dare risposte più eleganti o, perlomeno, più condivisibili di quella che è la verità. se avessi risposto “ a niente, guardo il cielo senza curarmi di ciò che penso” forse sarei sembrato un po’ sgarbato, o forse un po’ deficiente. circa i nostri pensieri, riusciamo ad essere totalmente sinceri solo con un’ipotetica materializzazione del nostro Io. ma avendo accanto la materializzazione del nostro Io probabilmente le parole sarebbero superflue, lui (o lei) saprebbe benissimo a cosa pensiamo. lei, la ragazza “che silenzio, che pace… si sta benissimo…” io “questione di punti di vista: silenzio e pace, in questa medesima notte, per qualcun altro potrebbero essere sinonimi di “che noia, che palle”, se ora trasportassimo qui un ragazzo che si sta dimenando in qualche discoteca della riviera romagnola probabilmente penserebbe che questo è l’inferno; l’inferno è una conseguenza della nostra visione delle cose eheheheheh”. accenna un sorriso “hai ragione, se ora fossi trasportata nel bel mezzo di una pista di una discoteca penserei di essere capitata all’inferno”. io “ in effetti trovarsi qui con me, su questo balcone, dev’essere per te una sensazione celestiale. devi sapere che in realtà io sono un angelo… o uno svitato…” lei “ preferirei fossi un angelo ma la ragione mi consiglia di pensare che è più facile che tu sia una svitato; chissà perché la ragione spesso è così poco bizzarra e immaginosa”. io “la ragione la cresciamo, la educhiamo noi: siamo noi che troppo spesso la facciamo crescere in un ambiente recintato, restrittivo; un bambino che cresce in una famiglia dalla mentalità rigida è probabile che divenga una persona dalla mentalità rigida”. un’ombra di tristezza le vela il viso “vorrei che fossi cresciuta in un ambiente più aperto… tu forse hai avuto questa fortuna…” io “ sono un angelo e mi è toccato crescere in una famiglia normale, gli spazi del paradiso, in fatto di apertura, non possono certo competere con gli spazi terreni… … ti va di fare due passi?” ci alziamo quasi contemporaneamente.

vi saluto, vado a fare due passi con la mia fantasia eheheheheh.