chi tocca muore.
così c’è scritto da qualche parte nel mio scheletro come un numero di matricola
di un telaio. pensare di conoscerne il motivo sarebbe stupido, un’automobile
non s’interroga sul numerino che porta impresso sotto un parafango. ce l’ha e
basta. nessuno cerca di proteggermi da me stesso. farei comunque a modo mio
però qualche volta sapere che qualcuno tenta di proteggerti potrebbe essere
piacevole. stralci di umana vulnerabilità. dopotutto una volta spuntato dalle
spalancate cosce della mia madre terrena ho calcato il suolo di questo grande
sasso che chiamate mondo. e ciò fa di me un essere umano. a tempo perso,
magari. ma sempre un essere umano. mi faccio del male ed è la cosa migliore che
possa fare. comportarmi diversamente mi farebbe ancora più male. e non sarei
più io. mi faccio del male isolandomi colorandomi pungendomi. mi faccio del
male e sorrido. e sono io. sono mio. la pelle truccata del pagliaccio serve
anche a questo. a nascondere il fatto che non metto la testa a posto. sempre lo
stesso di quando avevo quattordici sedici ventuno anni. sorrido. perché nessuno
vede il mio sorriso. sorrido perché la mia splendida dama ottocentesca è sempre
lì e non mi lascia mai. senza Lei non sarei niente. senza di me non sarei
niente. sarei uno dei tanti. niente.
martedì 23 settembre 2014
giovedì 18 settembre 2014
il canto delle sirene…. mmmm
io ho l’ululato dei miei lupi, una variante sul tema, forse. quando i miei lupi
ululano la notte è sempre così buia. voglio nero zero più assoluto totale.
silenzio. voglio sprofondare. e cadere. precipitare. ma i miei lupi me li
tengo. senza di loro, senza i loro morsi, forse sarei morto. morto dentro
intendo. ho così tanta nausea addosso. nausea del mondo, della gente, della
mediocrità che vedo ovunque. vorrei poter essere libero dentro la gabbia della
mia solitudine.
l’orologio sulla parete mi fa
sapere che, dall’ultima parola che ho scritto, è trascorsa più di mezz’ora.
così, seduto sul pavimento con lo sguardo perso nel vuoto. credo ne lascerò
passare almeno un’altra.
suona una musica sporca e
bastarda che parla con la lingua impregnata di sangue e sudore e notte e fumo e
alcool e penombra e solitudini che si sfiorano per il tempo di uno sguardo.
cose così. una specie di nebbia triste e romantica venata di quel sapore che
solo i ricordi stagionati hanno. suona una musica così, se capite cosa voglio
dire. uno sparo o una lama, chissà cosa ci starebbe meglio. un blu macchiettato
di grigio con qualche schizzo di sangue e la notte a fare da sfondo. il fondale
di un mare ma senza acqua o cielo aria e nemmeno un uccello che vola.
ogni tanto penso alla morte,
si sa. la giovinezza che evapora è morte che s’insinua lenta attraverso la
pelle, morte che scava piano le sue radici. nella tua pelle. e ad un certo
punto ti lascia secco. ho visto così tante persone morire. una persona che
muore è…. non so. puntini di sospensione. se non vi chiamate superman forse
potete capire. che cazzo di giorno è oggi? mercoledì giovedì venerdì? cosa importa?
cosa importa?
sabato 13 settembre 2014
con una matita per il trucco dimenticata
chissà-da-chi mi disegno sull’avambraccio sinistro un bel 17. seduto sul
pavimento sono splendidamente solo. le persone spariscono e ciò che ci resta è
come un’immagine virtuale, un’ombra a colori, la sagoma di un fantasma. non
sono le persone in sé ad esserci vicine bensì le persone che abbiamo
incrociato, voglio dire che le persone non sono immagini in diretta ma viventi
ritagli della nostra memoria. anche se sono vive, in carne ed ossa, e possiamo
incontrarle, toccarle, sentirle, in realtà le persone che incontriamo,
sentiamo, tocchiamo sono le persone che abbiamo incrociato. per
noi restano così, ferme al momento dell’incrocio degli sguardi.
lunedì 8 settembre 2014
Urbano pomeriggio solitario passo dopo passo dopo
passo tra vetrine e gente con eleganti buste cartonate, gente silenziosa e
sola, gente che parla per cercare di venderti qualcosa o per cercare
d’illudersi di avere dei pensieri e una vita. La vostra adorata Cry in pieno
centro cittadino, indosso un delizioso e delicato abitino di cotone a fiori
molto casa-nella-prateria sfondo bianco e miliardi di microfiorellini perlopiù
rosa e rossi, ai piedi i miei dr martens rosa a pois bianchi. Nessuno mi può
avvicinare, sono più bella di una dea di una fata e di una stella tutte
assieme. Unmetroesettantaquattro per quarantaseichiliesettecento
d’incontaminata e fatata bellezza stronza e intoccabile. La più bella fatina
perduta nel suo incantato bosco di asfalto vetrine e cemento. Cammino come un
aggraziato soldato alieno a cui niente importa della sua missione nel vostro
cazzo di pianeta di merda. Forse un secolo che non uscivo dal mio monolocale al
tredicesimo, mi sgranchisco le gambe mentre la mia pelle lunare accarezza un
po’ di sano smog cittadino. I miei occhi sono più neri del solito incorniciati
da soffici ciglia mascarate, specchi neri che riflettono cose che non
m’interessano. Voglia di camminare. Passo dopo passo dopo passo. Un’ora fa ho
incontrato il mio chimico bottegaio farmaceutico, seduti ad un tavolino mi ha
dato la sua busta il kit perfetto di sciroppi e caramelle per una provetta e
pervertita bambina chimicamente viziosa. Roba da farci tanti bei picnic sul
prato di marmo del mio monolocale. Rallento il passo senza fermarmi per posare
dentro un vecchio cappello accanto a un vecchio cane e un vecchio senza una
gamba una manciata di banconote. A parte le chimiche sostanze è l’unico
shopping che oggi mi concedo. Decido di fare un salto nella profumeria dove
lavora Senia. La trovo dietro un bancone di lucido rovere senza polvere, mi
sorride coi suoi occhi verdi i capelli color miele e le labbra color ciliegia.
Ci sono due signore che parlano con Senia e l’altra commessa, io prendo e
riposo a casaccio matite, mascara e eyeliner lei si congeda dalla cliente con
cui parlava e mi si avvicina con un altro sorriso che significa “hey, ciao Cry”
le rispondo con un sorriso di soli occhi “sei adorabile questo vestitino è un
amore” mi dice. “Prendo questa” le dico tenendo tra pollice e indice una matita
qualunque, si allontana un momento e torna con una bustina di cartoncino
arancione, “per la matita sono sei euro, questi provali pure poi mi farai
sapere” dice con tono un poco formale per via delle persone che origliano, “una
di queste sere ci si vede” dico uscendo alla mia amica Senia. Cammino ancora
poi entro in un locale stretto e lungo praticamente vuoto, mi siedo ad un
tavolino mi rialzo mi dirigo alla toilette e dico all’uomo dietro al bancone
“un Jack Daniels… doppio senza ghiaccio”, davanti allo specchio mi spruzzo sul
collo il profumo regalatomi da Senia nella busta arancione, abbandono la
prismatica boccetta azzurrognola sul lavandino, pesco dalla busta un rossetto
color prugna che applico abbondante sulle labbra, bacio lo specchio e scrivo
col rossetto “guardate il riflesso di un sogno e pisciate come se fosse
l’ultima volta” torno al tavolino e trovo il mio doppio jack senza ghiaccio.
Prendo una pasticchetta bianca dalla bustina del pusher-farmacologico, una
pasticchetta bianca con un riga nel mezzo che sembra un anemico chicco di caffè
privo di aroma, dalla busta arancione prendo uno smalto verde smeraldo e coloro
meticolosamente quella righina mediana poi butto giù insieme ad una sorsata di
jack. Arrivano due o tre ragazzi si siedono non lontani da me e parlottano
guardandomi, io faccio cadere una lacrima di smalto nel centro del bicchiere
con poco jack, agito a mezz’aria il bicchiere e trangugio tutto quanto d’un
fiato. Loro parlottano e ridacchiano io li mando mentalmentea fare in culo.
mercoledì 3 settembre 2014
lolita
è una
di quelle perversioni che mette tutti d’accordo, la pedofilia. tutti
s’inorridiscono davanti ad essa. ma non è proprio di pedofilia che voglio
parlare. voglio parlare della soggettività di uno sguardo, di un punto di vista
che ti offre un’opera letteraria o cinematografica. nel romanzo di nabokov,
ancor più che nei film di kubrick o di adrien lyne (il remake del 1997), è
palese che il professore humbert è un pedofilo. la scintilla che percepisce
quando vede per la prima volta lolita non è un fulmine a ciel sereno, prima di
lolita c’erano le panchine dei parchi, dove il professore sbirciava oltre il
giornale e fantasticava su quelle che lui chiamava “ninfette”. quindi
d’accordo, ecco nella vostra mente farsi largo pensieri tipo “è un mostro, un
porco, merita la forca o la galera”. non voglio fare un’arringa difensiva
quindi non dirò che alla base di quella sua perversione c’è il suo amore
adolescenziale, sbocciato sulla costa azzurra, che morì di tisi, mi pare. e
lui, in ogni ninfetta, rivedeva quel suo amore, quella sua ragazza morta così
giovane. e poi, quelle ninfette, come le chiama lui, sono bambine, ragazzine
che possiedono qualcosa di malizioso, qualcosa, forse nel loro inconscio, che
stride con l’innocenza che dovrebbero avere. insomma, non sono certo qui per
giustificare la pedofilia. forzare una persona a fare ciò che non vuole o ciò
che non comprende appieno è sempre esecrabile. ciò che volevo evidenziare (cosa
volevo evidenziare? mi stavo perdendo nelle mie parole…) è il punto di vista,
ovvero come, attraverso un’opera d’arte, possiamo guardare attraverso gli occhi
di un personaggio, guardare e sentire, percepire le cose. e, se l’artista è
bravo, riesci benissimo a posizionarti dietro gli occhi e il cervello del personaggio
e vedere così le cose come non le vedresti con il tuo cervello e i tuoi occhi.
ecco, ciò che volevo sottolineare l’ho sottolineato. ora potrei sprecare chissà
quante parole per elogiare il film di kubrick (e il romanzo, ma anche il remake
del film non è male). ci sono così tante scene memorabili, la scelta della casa
da affittare per via “delle torte di ciliegie”, il lento e angosciante
inseguimento automobilistico, il tavolo da ping pong, il finale quando lei dice
“dunque mi stai dicendo che ci darai i soldi se verrò nel motel con te?”, per
non parlare del fatto che stiamo parlando di una storia incentrata su una
passione, una perversione incontrollabile e ciò lo si percepisce benissimo
sebbene non ci sia nemmeno una scena minimamente sconcia. grande maestro il
signor kubrick, chapeau.
[Lolita, regia di Stanley Kubrick, 1962]
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