sabato 27 luglio 2013

padova, il santo, giotto e roger waters




mi sveglio vagabondo, mi alzo faccio la doccia e parto. a mente libera. senza lancette o programmi, libero e vagabondo come il fanciullo dalle suole di vento. tra le svariate, lussuose, costose e veloci frecce d’oro, bianche e d’argento trovo il treno che fa per me: lento, obsoleto, dal tragitto pluriframmentato e il biglietto decisamente poco costoso. dopotutto si arriva quando si arriva, l’orizzonte attende sempre impaziente. a quanto pare, per questo mini-viaggetto-vagabondo, ho scelto 
prato della valle
i giorni più caldi degli ultimi cento anni ma vabbe’, dicono ogni anno così i salariati sproloquiatori televisivi. arrivo in città e percorro miliardi di chilometri e piedi per trovare un alberghetto che m’ispiri e che non sia strapieno per via del concerto. chilometri e chilometri ma, quando si fa un viaggetto vagabondo, le suole sono di vento.
basilica di santa giustina
il prato della valle a quanto pare è una delle piazze più grandi d’europa, un isolotto circondato da un canaletto d’acqua con quattro ponticelli di marmo e, tutte disseminate qua e là, un’ottantina di statue di marmo bianco raffiguranti persone che hanno avuto a che fare con questa città. 
prato della valle
adiacente alla piazza c’è la cinquecentesca basilica di santa giustina, cammino un po’ e scorgo le cupole bizantine della basilica del santo (qui sant’antonio è semplicemente “il santo”). all’interno diverse sculture barocche tra cui una pietà marmorea, un monumento che celebra pietro bembo, affreschi trecenteschi del menabuoi, un crocefisso del donatello, dipinti cinque-seicenteschi e qualcosa anche risalente al 1980, inoltre le arcinote reliquie del santo nella cappella delle reliquie, la lingua, il mento (un pezzo di cranio, yes) e persino le corde vocali oltre alla tonaca e alle casse di legno che contenevano le ossa del santo. dopo aver visto
gattamelata



 le reliquie, sempre all’interno della chiesa, incrocio un prete meravigliosamente anziano, con l’abito tutto nero e il viso pallido solcato da pieghe secolari, somiglia a max von sidow ne l’esorcista, è veramente parecchio vecchio, mi fa un piccolo sermone tutto per me sulla corruttibilità del corpo e l’immortalità dell’anima, con toni piuttosto medievali, quei toni che atterrivano la gente dei secoli bui, un siparietto molto cinematografico, avrei quasi voluto scattare una foto all’anziano prete ma non sono tra quelli che guardano tutto quanto attraverso l’occhio di una foto-videocamera, preferisco non far atrofizzare l’occhio del mio animo. le sensazioni vanno vissute, non salvate in qualche microchip di fattura giapponese. Nella piazza della basilica c’è il bronzeo monumento al gattamelata, quattrocentesco condottiero schierato dalla parte della chiesa, del donatello (con una bancarella di souvenir a mezzo metro dal piedistallo della statua). camminando ancora attraverso l’elegante piazza dei signori, credo si chiami così poiché sulla piazza si affacciava la dimora dei signori della città, i carraresi, con l’imponente orologio astronomico. poi…

…poi il momento tanto atteso, l’apice estetico e spirituale del viaggetto. i giardini dell’arena romana, accanto la chiesa degli eremitani e, sempre lì, loro, quelle immagini vecchie di settecento anni ma ancora così fresche, dinamiche e vitali, la cappella degli scrovegni con gli affreschi di giotto. per visitare la cappella è necessaria la prenotazione in quanto sono ammessi gruppi di massimo 25 persone che devono sostare per una mezz’oretta in una camera che faciliti l’adattamento corporeo alla temperatura della cappella, per limitare i danni della condensa causata dal calore dei corpi dei visitatori. ovviamente non ho nessuna prenotazione ma evidentemente non c’è il pienone, faccio il biglietto e dopo dieci minuti sono dentro la asettica saletta dal nome molto specialistico ed elaborato, il cta (centro tecnologico avanzato) per la stabilizzazione del microclima. in realtà è semplicemente una piccola sala d’attesa con l’aria condizionata che somiglia a quella di qualsiasi studio dentistico ma chiamarlo cta riempie molto la bocca eheh. ah, quasi dimenticavo, accedere alla cappella senza aver prenotato (niente prenotazioni-programmazioni nei viaggetti vagabondi!) mi riempie di una gioia molto libertina e quasi selvaggia, elogio dell’improvvisazione, pura sensazione di evasione dal mondo incatenato in cui si deve ad ogni costo e per ogni cosa timbrare il cartellino.

mmmmm piccolo riassuntino storico: il signor enrico scrovegni, nel 1300, acquista un’area adiacente all’arena romana e vi fa costruire il suo palazzo e, attaccata al palazzo, una cappella privata dedicata alla vergine, questo per esaltare la sua potenza di signore ma anche per riabilitare l’anima e la fama del padre reginaldo, noto usuraio che il signor dante colloca appunto nel girone infernale degli usurai (anche il signor enrico praticava l’usura e dunque con la costruzione della cappella voleva “sciacquare” anche la sua di anima). per affrescare l’intera cappella viene chiamato l’artista più noto e apprezzato del tempo, il signor giotto, per le statue da collocare sull’altare il signor giovanni pisano. in due parole (ci provo): la cappella è una stanza a pianta rettangolare, col soffitto a botte; nelle due pareti più piccole da una parte c’è l’altare con le tre statue di marmo del pisano e, dall’altra, il giudizio universale affrescato da giotto: un grande cristo al centro circondato dagli angeli e dagli apostoli, sotto, alla sua destra, i beati destinati al paradiso (tra cui, guarda caso, il signor enrico scrovegni) e, alla sua sinistra, i dannati destinati all’inferno, con tante immagini infernali di diavoli che ricordano tanto il signor hieronymus bosch (un pittore olandese del cinquecento). il soffitto è tutto blu con stelle d’oro, le pareti laterali hanno ognuna tre file d’immagini che raccontano le storie di Maria, a partire dalle vicende di gioacchino e anna, padre e madre della vergine, e le vicende legate alla vita di Gesù. tra le immagini che narrano le storie di Maria e di Gesù ci sono le allegorie delle virtù cardinali e teologali e, nella parete di fronte, le corrispettive immagini peccaminose opposte alle virtù. così, di fronte alla fortezza abbiamo l’incostanza, davanti alla temperanza l’ira, davanti alla giustizia l’ingiustizia, alla fede è contrapposta l’infedeltà e così via. mmmmmm macchepalle ‘sti convenevoli, aprite un libro o cercate su google che è meglio! torniamo a noi. dentro la cappella. la prima impressione che mi avvolge è la meraviglia per lo stato di conservazione in cui si trovano gli affreschi, finiti di restaurare credo una decina di anni fa: sono perfetti, alcuni sono un po’ rovinati, soprattutto il giudizio universale, ma sono ugualmente perfetti, più vividi, puliti e luminosi che mai, così vivi e semplicemente belli che dopo due secondi già sento la loro voce nitida, tenue, soave e cristallina, angelica e spirituale. voce per la mia anima. le vesti dei personaggi raffigurati, a seconda che siano baciate o meno dalla luce, acquistano plasticità, spessore, profondità, rivelando i profili e i movimenti dei corpi e i volti, i volti porcaputtana i volti (ooppssss, pardon!) sono incredibilmente e così umanamente espressivi, hanno la profondità psicologica che solo la grande letteratura sa regalare ai personaggi, sono vivi e parlano, parlano con voce più eloquente di qualsiasi parola. la famosa donna, madre di uno dei bimbi trucidati da erode nella strage degli innocenti, quella col volto rigato da una lacrimuccia è troppo piccola e troppo in alto per mostrarmi la nota lacrimuccia (la lacrima più bella della storia dell’arte… poi vabbe’, settecento anni dopo arrivò la mia amica sinèad col video di nothing compares to you…. scusate ma l’estasi per il concerto di sinèad o’connor alberga ancora tra le mie vene eheh). alcuni soldati stesi a terra dormono. ma non dormono solamente. stanno sognando e si vede, sembra di vedere i loro sogni, sembra di potercisi tuffare nel mondo celato dalle loro palpebre abbassate. poi gesù che guarda giuda nella scena del tradimento: porca miseria COME lo guarda, quello sguardo trapassa ogni cosa e giunge fino all’anima, uno sguardo che annichilisce ogni interferenza terrena. mica facile rendere in un’immagine uno sguardo così! mi viene in mente un aneddoto che riguarda il signor picasso. il pittore spagnolo si trova in un qualche paese di cui non conosce la lingua (europa dell’est mi pare), ha bisogno di un flacone di etere, entra in una farmacia e per spiegare cosa vuole fa uno schizzo, un disegno!
a proposito di difficoltà nell’esprimere con pochi tratti certe sensazioni, mi sento come un cieco che cerca di riparare il meccanismo di un rolex. dopotutto non ho neanche voglia di sforzarmi, se volete potete sbirciare direttamente nella mia anima dal buco della serratura. scherzo, nessuno può fare ciò. però è stato davvero sensazionale come quegli affreschi mi abbiano trasmesso così tante sensazioni, un vero bombardamento di emozioni del tutto privo di violenza, una tenue e soffusa raffica di lampi color pastello.
localino vuoto
 
mmmm per dovere di cronaca, gli affreschi hanno parlato alla mia anima ieri mattina. stasera c’è il concerto di roger waters. per sfuggire alla calura di mezzodì ho scovato un localino che faceva per me, completamente vuoto. su un tavolino di questo locale ho vomitato di getto queste parole. così, per dovere di cronaca. e stasera sarà the wall…


the wall live in padova 2013














lunedì 22 luglio 2013

un lungo pomeriggio d'estate

è un pomeriggio privo di data, fuori un grigiore luminoso, sole caldo estivo dietro un cielo che finge di essere autunnale, aria calda, mi vengono in mente i pomeriggi estivi di qualche secolo fa, quand’ero adolescente, a quei tempi i pomeriggi estivi erano interminabili, duravano decine e decine di ore, non finivano mai, uscivi, ti sedevi in qualche angolino di cemento baciato dall’ombra e chiacchieravi distrattamente con la consapevolezza che davanti si prospettavano decine e decine di ore di aria calda e scenografia da paesino immerso in una siesta, uno di quei paesini dei film western, tranquilli e soporosi almeno fino a quando non arrivano i cattivi a sconquassare quel velo di apatia. in giro c’eravamo solo noi adolescenti, stravaccati per terra, immersi nello stagno della nostra noia giovane e distaccata. la sera, dopo una doccia, ci si abbigliava in maniera dignitosa, una manciata di gel sui capelli e ci si tuffava nel mare della gente, alla scoperta e alla ricerca di quell’universo che rimescolava continuamente gli ormoni nelle nostre vene, l’universo femminile. ma durante quei pomeriggi vestivamo panni trasandati, pantaloni di tute ginniche tagliati con le forbici, pantaloncini da calcio, magliette vecchissime e scolorite, eravamo in un angolino di cemento baciato dall’ombra, la civiltà non ci interessava. ora quei pomeriggi sono lontani, accantonati in un angolino all’ombra della memoria.

ora sono stravaccato sul pavimento bianco, abbigliato in maniera splendidamente incivile, la civiltà è chiusa fuori oltre la finestra, loreena mckennitt nell’aria ombrosa del mio salotto, vedere questo pomeriggio che pensa ai pomeriggi che dicevo poc’anzi mi fa pensare al vecchio e il mare di Hemingway. stravaccato in un angolino di bianco baciato dall’ombra di un tetto perduto tra un milione di tetti tutti uguali e rossicci e accaldati. mi alzo per bere da un grande calice di vetro dell’acqua tiepida, l’acqua fresca di un frigorifero sarebbe troppo civile, sorseggio l’acqua e mi spingo fino al corridoio dove c’è uno specchio, vedo un vecchio e un giovane, mi sorrido, un sorriso in bianco e nero, mi siedo nuovamente sul pavimento, abbraccio le mie ginocchia e poso su di esse il mento, osservo queste parole che sono tante goccioline che compongono una nuvola che muta forma, cresce, s’ingigantisce, volteggia alta perduta in un angolino di cielo di un lungo pomeriggio d’estate.

rileggo le parole scritte poco fa e non cambio nemmeno una virgola, se cambiassi anche solo una parola non sarei più io, penso a quanto adoro scrivere “in presa diretta”, penso quanto possa essere interessante per voialtri leggere di me che sto seduto sul pavimento, penso ciò e vado avanti. mi viene in mente ora una storia letta in un romanzo, tempo fa, probabilmente una storia inventata dall’autore del romanzo: Salvador Dalì e sua moglie Gala sono vecchi e innamorati, possiedono un coniglio a cui sono molto affezionati, il coniglio non si separa mai da loro. Dalì e Gala sono in procinto di partire per un viaggio e discutono su cosa fare del coniglio, sarebbe un problema portarselo dietro per tutto il viaggio e sarebbe un problema affidarlo a qualche persona di fiducia in quanto il coniglio si fida solo di loro e con altre persone diventa schivo e introverso. il giorno successivo Gala prepara il pranzo, i due si siedono a tavola e mangiano di gusto almeno fino a quando Salvador si rende conto che ciò che sta mangiando è carne di coniglio. allora corre in bagno e vomita la carne di quella che era la sua adorata bestiolina. Gala invece si sente soddisfatta perché ha interiorizzato la bestiolina, ora l’adorato coniglietto faceva parte di lei e le accarezzava le viscere, ciò che aveva fatto con quel coniglio era molto più che fare l’amore. non so perché mi sia venuta in mente ora questa storia ma così come mi è saltata in mente così l’ho riversata su questa pagina, scrivere in presa diretta, adoro farlo.
associazione libera d’idee: pensando al coniglio di Dalì e Gala mi viene in mente una cosa che mi fa tornare ai tempi degli interminabili pomeriggi estivi adolescenziali. a quei tempi uno dei nostri miti era il film antropophagus, un b-movie uscito nel 1980 e che un mio amico si era procurato in vhs. in questo film c’è una scena, che ci faceva ridere parecchio, in cui un mostro si ciba di un feto e, alla faccia dei moderni effetti speciali, il feto dilaniato dal mostro era vistosamente un coniglio senza pelle eheheh. fine dell’associazione libera d’idee.

cambio cd e a loreena mckennitt succede suzanne vega, il telefono rimane sempre spento e nero, entra nella stanza un’arietta calda soffiata dal mondo che vuole ricordarmi la sua esistenza, come se non fossero sufficienti i rumori degli operai che lavorano alla costruzione di una palazzina poco distante. c’è una canzone di suzanne vega intitolata the queen and the soldier. è un lungo dialogo tra un soldato che non vuole più combattere per la sua regina perché non comprende più il senso della guerra. il soldato si reca nel castello dove dimora la sua giovane regina e, una volta accolto da lei, cerca di spiegarle che non combatterà mai più perché ora aborrisce la guerra e non ne comprende il senso. la regina ascolta e sembra triste sotto la sua bella corona dorata. tutto farebbe supporre un finale romantico invece, alla fine della canzone, il soldato lascia la stanza della regina e “altrove qualcuno obbedisce agli ordini della regina e uccide il sodato”. ho sempre apprezzato quel finale disincantato, dal sapore terribilmente realistico e inimmaginabile. per un attimo sorrido perché, facendo un miscuglio dei miei pensieri, vedo la giovane regina che si butta a terra e dilania con i denti un coniglio scuoiato e sanguinolento.

mi alzo per sgranchirmi le gambe, arrivo in cucina e noto che lo sportello del freezer è chiuso male. ma non è stata una mia disattenzione. forse non sapete che il mio frigorifero è stato fabbricato ai tempi di giorgio guglielmo federico di hannover, ovvero ai tempi della prima rivoluzione industriale. comunque, dato anagrafico a parte, da due o tre giorni il mio freezer è occupato per metà da due lastrone di ghiaccio, una saldata alla base e una al soffitto di quella che oramai sembra una vera e propria caverna dell’era glaciale, con tanto di stalattiti e stalagmiti di ghiaccio. il 50% dello spazio del mio freezer è occupato dal ghiaccio che, non accontentandosi dello spazio interno del freezer, ora sta debordando all’esterno, ragion per cui lo sportello non si chiude bene. ma perché vi racconto ciò? be’, la ragione sta nelle madonne di Raffaello (la Madonna del cardellino ad esempio, o la Madonna della seggiola). in molti pensano che per non annoiare le persone, e mai vorrebbero annoiarle perché ognuno sogna in cuor suo di essere interessante, affascinante e divertente, in molti pensano che per non annoiare le persone bisogni dire o fare qualcosa di sensazionale, bizzarro o strampalato. ma questo è un pensiero che può scaturire solo da menti mediocri. le madonne di Raffaello non hanno niente di sensazionale se non la loro sensazionale Bellezza. quindi, non sentendomi obbligato a raccontarvi qualcosa di eccezionale, vi racconto quello che ho visto poco fa recandomi in cucina, lo sportello del mio freezer chiuso male. oltre alle sensazioni raffaellesche il mio freezer per metà ricoperto di ghiaccio mi fa pensare ad una mente completamente squadrata e perfettamente geometrica che, per una rivelazione divina, assume plastiche e morbide fattezze degne di barbapapà. gli esserini spettatori paganti del mio circo quotidiano hanno menti talmente squadrate che, qualora venissero folgorate da un’ispirazione divina, produrrebbero quantità di ghiaccio suddivise in molteplici microcubetti tutti simmetrici e perfettamente identici. a dire la verità ora non voglio pensare al circo. a dire la verità. la verità a volte modifica la percezione che abbiamo delle cose. qualche secolo fa, avevo pochissimi anni, ero un bambino di cinque o sei anni, discutevo con due o tre amichetti sul fatto se le donne producessero o meno delle scoregge. e mentre dissertavamo su tale filosofico argomento uno dei bambini giunse illuminante e potentemente chiarificante con la voce della verità. “qualche giorno fa io ho sentito mia madre fare una sonora scoreggia!”. quell’affermazione illuminante e gravida d’indiscutibile verità mise fine all’intellettuale dibattito e fece sì che vedessi, da quel momento in poi, in maniera diversa la madre del mio amichetto. non l’avrei mai più rivista come la vedevo prima. potenza della verità.

da un po’ di tempo dormo male e i miei sogni ne risentono, sono così numerosi e frammentati, incompleti pezzettini d’immagini poco fantasiose, mi mancano quei bei lunghi sogni così simili a film slargati e melodiosi come le salmodie delle processioni estive religiose. anziché prolungati e ispirati lungometraggi il mio inconscio produce tanti spot pubblicitari. se ogni tanto il mio inconscio non si risiede sulla sedia da regista giuro che lo prendo a calci nel culo. prendere a calci nel culo il proprio inconscio. una perversione degna del più spirituale dei leopold von sacher masoch che abbiano mai calcato questa terra. mi alzo, accendo una sigaretta, sorseggio un poco d’acqua tiepida dal calice di vetro a buon mercato e mi sgranchisco ancora le gambe gironzolando per la casa come un sonnolento leone in gabbia. così come l’acqua del bicchiere anche il pavimento è tiepido e anche l’aria che entra dalla finestra. le lancette dell’orologio alla parete girano decisamente a rilento, forse sono riuscito a ricreare uno di quei pomeriggi estivi adolescenziali. ho creato dal nulla, nella sacralità delle mie pareti, uno stralcio di adolescenza. mi sento quasi come il dottor frankenstein. o il dottor jekyll. doppia erezione letteraria. una sirena, no niente di mitologico, una sirena d’ambulanza mi distrae dai pensieri sui miei sogni. come diavolo osa un’ambulanza rompere la quiete del mio pomeriggio estivo adolescenziale? chi diavolo osa stare male nel mio pomeriggio estivo adolescenziale? non lo saprò mai. o semplicemente in quell’ambulanza non c’era nessuno. la sofferenza ci pone faccia a faccia con la nostra solitudine. quando soffriamo il nostro dolore si frappone fra noi e le altre persone come una specie di cuscinetto, un’intercapedine che attutisce le voci, le carezze, le parole di conforto. vabbe’, io il contatto con la mia solitudine non lo perdo mai ma io sono, grazie a Dio, un caso disperato. la mia solitudine, la mia bellissima solitudine figlia della mia tristezza che è figlia della mia diversità, la mia solitudine io la chiamo la mia splendida dama ottocentesca. la mia splendida dama ottocentesca è così bella e premurosa nei miei confronti, non mi abbandona mai, come penso spesso “mi accompagnerà fin dentro la fossa”. quando sarò in punto di morte la mia splendida dama ottocentesca mi darà il più bel bacio della mia vita, ne sono sicuro. Lei, pur essendo esclusivamente mia e solo mia, è anche così universale, credo sia la mia vera madre. credo potrei essere geloso di Lei. si può essere gelosi solo delle cose preziose che ci appartengono così intimamente. come diceva lo scrittore, la gelosia è una malattia dell’anima. mai vorrei curare la mia anima, me la porterò così com’è fin dentro la fossa. dopotutto, se non è oppressa dal cerone e dal nasino rosso, la mia anima è in grado di produrre miele come un’ape indisturbata. be’, si fa per dire.


mi distoglie dai miei pensieri il rumore dell’ascensore che giunge al mio piano. la tizia dell’agenzia che tenta di affittare l’appartamento adiacente al mio. sonoro clicheggiare della chiave nella serratura e, la parete che separa il soggiorno in cui ora mi trovo dall’appartamento suddetto, probabilmente è sottile quanto la membrana timpanica di una farfalla, un attimo dopo aver spalancato la porta ecco la tizia dell’agenzia che pronuncia la più prevedibile, inutile e poco fantasiosa frase della storia dell’umanità: “ecco, questo è l’appartamento!”. una simile mancanza di fantasia sarebbe un motivo più che valido per andare via senza neanche vedere l’appartamento. l’assenza di fantasia per un’anima credo sia come l’assenza di ali per una farfalla. “ecco, questo è l’appartamento!”. la fantasia della tizia dell’agenzia è probabilmente più arida del sahara senza neanche una piccola oasi di cervellotica visione fantastica. mi auguro che l’appartamento adiacente al mio resti ancora sfitto per due o tre secoli, a meno che non lo affittino tre o quattro giovani ragazze svedesi che un giorno suoneranno alla mia porta chiedendomi lo zucchero o il sale ed io spalancando la mia porta rivelerò “ecco, questo è il mio appartamento!”. se non puoi avere una vicina di casa geniale o almeno estremamente intelligente che sia almeno alta, bionda e svedese. abbandono le mie scandinave fantasie immobiliari e mi alzo per sgranchirmi nuovamente le gambe.
a piedi nudi sulla sabbia del mio deserto personale. non ci sono persone nel mio deserto. diceva lo scrittore che la solitudine è il campo da gioco di satana. mi viene in mente una canzone di polly jean harvey “… sono nata nel deserto, ci sono stata per anni… … ho scalato le montagne, attraversato i mari, mi sono fatta cacciare dal paradiso, mi sono fatta umiliare, mi sono dovuta inginocchiare, ho preso in giro il diavolo, maledetto il buon dio, distrutto il paradiso…”. una tizia che curò la prefazione ad una mia raccolta di parole mi fece notare che quando scrivo uso spesso la parola e l’immagine del deserto. decisamente vero. devo essere nato nel deserto o devo comunque esserci stato per anni. poi come un meteorite sono caduto in un mondo in cui imperano balli latinoamericani, stupide finzioni televisive, banali personcine simili a ritagli di carta che temono ogni folata di vento. s’illudono che attorniandosi di altri ritagli di carta diventino invulnerabili alle raffiche di vento. le parole. le parole altro non sono che folate di vento nel deserto. 

giovedì 18 luglio 2013

da quando c’è il digitale terrestre ogni tanto mi capita d’incrociare un film che incontra i miei interessi. ogni tanto persino uno dei miei film adolescenziali, quelli che vedevo da 14enne a notte inoltrata. una manciata di giorni fa ho incrociato il sugarland express, secoli che non lo vedevo. un gradevolissimo film senza troppe pretese, dalla trama semplice ma coinvolgente: un’ inesperta e ingenua coppia di ladruncoli, dopo che lui è appena evaso di prigione,ruba un’auto della polizia, prende in ostaggio un agente e comincia un lungo viaggio fino a sugarland, per riappropriarsi del figlioletto che è stato dato in affidamento ad una coppia di anziani. subito, dietro la loro macchina, si forma un lungo cordone di auto della polizia e successivamente anche i media s’interessano a questo strampalato corteo. goldie hawn nei panni della sciocca biondina semplice e spontanea è assolutamente deliziosa e irresistibile.

[sugarland express, regia di steven spielberg, 1974]

lunedì 15 luglio 2013

pensare alla propria morte, quando si è soli e non si hanno più vent’anni, non credo sia un’ossessione, soprattutto se lo si fa con serenità. le due decadi di vita le ho passate da un po’ e, quanto all’esser soli, sono orfano, celibe, non ho né figli o parenti, né cani o gatti, non ho amici e nemmeno premurosi vicini. ma non mi lamento di ciò. è solo per dire che ogni tanto, come un venticello, s’alza il pensiero che un bel giorno sparirò senza lasciar traccia di me. agli uomini piace lasciar sulla terra la propria impronta. per questo scrivono o compongono o dipingono capolavori (chi ne è capace). per questo generano figli (anche un'opera d'arte è un parto...). per questo stringono rapporti umani. vabbe’, anche per timore della solitudine. ma anche per avere l’illusione di non essere dimenticati, di non essere passati sul pianeta senza lasciare una seppur fugace impronta. credo sia per il medesimo motivo che molte persone, in età matura, sentono il bisogno di abbozzare, compilare (o scrivere, chi ne è capace) un’autobiografia. se non hai avuto una vita alla indiana jones, se non hai un nome importante o se non sei molto ricco, se non sei un genio, a nessuno importerà dove e come sei nato, cresciuto e bla bla bla. certo, se poi sai scrivere (per saper scrivere bisogna avere i cinque sensi aguzzi, bisogna saper pensare, bisogna avere un profondo pozzo interiore in cui pescare…) puoi rendere interessante anche il resoconto della vita di una formica pescata a caso dal formicaio. dunque, a meno che non si tratti di una vita alla indiana jones, la sfilza di fatti inanellati in ordine cronologico sarebbe una bella rottura. la storia dei pensieri, invece, potrebbe essere più tortuosa del percorso delle montagne russe. si può avere una vita esteriore grigia e mediocre e, al contempo, avere una vita interiore tormentata e avventurosa, audace, piena di pericoli e travagli. si può essere degli indiana jones interiori, insomma. mmm questo post sta diventando troppo lungo, ok la pianto...

mercoledì 10 luglio 2013

la pelle accaldata in questa notte calda trasuda alcol e chimiche gocce colorate. antiche anime mi volteggiano attorno in una danza che terminerà solo con l’approssimarsi dell’alba. la mia anima è l’unica essenza che può vedermi, l’unica farfalla che svolazza dalle mie parti, anche e soprattutto nelle notti più scure. antiche anime mi danzano attorno senza conoscermi, sfiorandomi solo per una misteriosa coincidenza che sa di storia antica e secolare, millenarie maschere alla ricerca di un adepto per la loro religione senza nome. il mio letto stanotte è un lago infuocato, le chiacchiere della gente un formicolio d’insetti senza peso. 

domenica 7 luglio 2013

sinèad

dio quanto ho pianto… davanti a sinèad che cantava [anche per me] quanto ho pianto… e quanto mi sono sentito bello mentre piangevo copiosamente… completamente solo davanti a lei… la sua voce, il suo canto… diomio quanto ero bello sciolto in un caldo pianto isolato…

voi emozionatevi pure ascoltando vasco, io mi tengo la mia sinèad.

venerdì 5 luglio 2013

mick jagger...

se il rock è una religione mick jagger è dio in terra porcaputtana. porcaputtana se lo è. sinuoso magro e superbamente provocante, l’ho visto due volte e… e se il rock è una religione lui è dio in terra. o il diavolo. il diavolo che canta il rock, che danza il blues, che gioca esibendo sfarzosi costumi e colori sgargianti e labbra  plasmate nel più proibito dei laboratori che si occupano della umane fattezze che calcano i palcoscenici di questo pianeta. uno stupefacente pagliaccio milionario con le rughe del più trasandato menestrello che campa narrando le storie semplici e cutanee del blues diabolico e umano umano e antico quanto l’uomo e i tamburi e le danze e i fuochi e i canti che sanno di pietra e maschere e legno e spalti e occhi che ascoltano e sognano e….e quelle rughe così… così millenarie, di pietra e sabbia e sale, il rosso che incontra il giallo e che bacia il blu.

a parte la barbetta più lunga del solito in questo momento sono il mio mick jagger personale, magro e nervoso e sinuoso, indosso una strana t-shirt rossa col cappuccio che mi copre mezza pancia, maglietta appartenente (l’ho scovata qualche giorno fa) alla mia bellissima musa dalle vene di ghiaccio… sono blueseggiante e maledetto al punto giusto… violino e veleno e serpente, statua pagana e bacio e femmineo liquore sgocciolante… sono bianco e nero, freddo e sporco al punto giusto, respiro armonica e i miei occhi rilasciano riffs chitarristici millenari.

questa notte sono semplicemente un dio del rock

lunedì 1 luglio 2013

Appena  rincasata dopo Rock Island e dopo dieci doppi jack, dopo venti vodka, cinquanta irish coffee e cento birre rosse fredde e cupe e profonde. A casa. Nel mio freddo monolocale al tredicesimo. Metto nel lettore dvd il concerto dei radiohead. Lo sfondo è blu, la musica è magnificamente perfetta, perfetta miscela di rock e alienazione, ghiaccio e colori forti e sincopati, odierne melodie fiabesche e viscerali. Sono sola, finalmente sola. Fumo e continuo a bere ciò che la mia casa offre. Sono sola, finalmente sola. Senza contegno mi autodistruggo mi anniento e sto bene bene come una nota musicale posta esattamente al suo posto, esattamente al suo posto. Sono esattamente una nota musicale posta al suo posto. Sono così magra e così pallida che farei invidia ad un ruscello d’alta montagna. Blu e ghiaccio grigia e cristallo, metallo e celeste dannazione, sono uno splendido capriccio per l’umanità tutta intera. Sono così bella che potrei morire in quest’istante. Voglio morire soffocata nei colori sgargianti dei sogni più bizzarri. Sono una dea. Sono un fiore cresciuto nel cristallo. Sono una regina della solitudine di vetro e asfalto e cemento. Adesso mi stendo e penso di morire. Non succederà ma lo penso lo stesso. Penso di morire mentre voi dormite all'oscuro di tutto. Se dovessi morire stanotte m’incarnerei nel marmo della pietà di Michelangelo. Vivrei nella fredda e perfetta bellezza burlandomi dei vostri ignari sguardi. Se morissi. Stanotte. M’incarnerei. Nel marmo. Della pietà. Di Michelangelo. Tutte le dita delle mie mani scorrono vezzeggiando i mie capelli dalla fronte fino alla nuca, le mie braccia sono lunghe e bianche e sottili quasi di marmo. Mi siedo sul freddo del pavimento abbracciando le mie nude ginocchia ossute. Sono bella e sola come una dea. Una dea caduta da chissà dove.