sabato 30 aprile 2011

il racconto di Eugene

Eugene premeva i tasti bicolori seguendo uno schema astratto che proveniva dalla sua mente e nessun altro poteva vedere, nell’aria arancione del soggiorno, baciato dall’alba, sfarfallavano le note dell’aria che il compositore tedesco, con le variazioni Goldberg, aveva smontato e rimontato per trenta volte con scrupoloso estro e matematica esattezza, le note gustose senza sbavature erano decise micropennellate senza esitazione, erano numeri che si libravano nell’aria e danzavano leggeri e ordinati come minuscole ballerine diligenti. Scesi nella stanza con occhi gonfi di buio, pieni ancora di sonno non evaporato. Badando a non far troppo rumore accesi il fuoco nel camino con alcuni ramoscelli secchi, accesi il fornello per il caffè pensando che in pochi potevano fare ciò mentre a pochi metri un pianista suonava le variazioni Goldberg. La luce lentamente si rafforzava e trafiggeva le finestre, la sonnolenza si diradava creando quello stato in cui il corpo ancora non è a pieni giri, un motore appena acceso che ha bisogno un poco di scaldarsi, quello stato che ti porta ad immergerti nei tuoi pensieri senza neanche accorgertene. Il resto della ciurma dormiva ancora, le raffinate note pianistiche giungevano con garbo e discrezione nel piano superiore, come una luce tenue che si fa largo attraverso grandi tende immacolate. Le assi della scala, scricchiolanti sotto il peso di padre Carhal che scendeva col suo vestaglione di lana scozzese, mi destarono da quel torpore, torpore che scomparve del tutto quando padre Carhal, con totale noncuranza della musica, col suo vocione baritonale ruppe ogni indugio col suo “buongiorno anime sveglie!”.
Con fare poco ortodosso, l’omone in vestaglia bordeaux a quadri era alle spalle del pianista, gli rifilò una robusta manata sulla schiena che fece deragliare il fiume di note che si ergeva dal piano “Dai Eugene, il caffè è pronto, vieni a tavola”.
“Racconta al nostro amico come sei finito nel mio reparto…”.
Eugene, piccolo visino da formichina bianca attorniato da una criniera di capelli spettinati, con voce flebile ma decisa incominciò: “I miei genitori erano entrambi morti quando ero ancora un infante, mio padre in un incidente, mia madre dopo pochi giorni si uccise e tentò di uccidere anche me incendiando la casa, ma mi salvai. Ero poco più che adolescente, vivevo con due mie zie in un piccolissimo paesetto, angusto e attillato come una famiglia sempre troppo presente e soffocante, tutti si preoccupavano troppo di cosa pensavano tutti, il pensiero individuale era continuamente piantonato dalla domanda “chissà cosa ne penseranno gli altri?”. Studiavo al conservatorio, ero un bravo ragazzo, di quelli che salutavano tutti per strada. Sentii ad un certo punto crescere, espandersi il mio carattere, divenire troppo grande e indipendente per quei confini paesani. E appresi il significato della parola “pregiudizio”. Inizialmente la mia voglia di essere un tantino più libero degli altri fu coperta dalla mia buona reputazione, lentamente però cominciai a divenire “strano”, “bizzarro”, “eccentrico” e infine “matto”. C’era una ragazza che mi piaceva tantissimo, frequentava un gruppo di beceri coetanei ed io pensavo che era troppo bella per essere come loro, pensavo che dovevo fare qualcosa per sottrarla a quello squallore mentale, avrei potuto iniziarla al mondo della musica, chissà. Una volta presi coraggio, la fermai per strada e le dissi “non puoi continuare a frequentare quelle persone, tu sei diversa, sei così bella, voglio salvarti da questa miseria..”, imbarazzata e un po’ confusa mi rispose “… veramente… non saprei… bè, grazie… ci penserò… ciao “. Era bellissima, da vicino lo era ancora di più, l’avrei salvata, avrei liberato un angelo da quella fanghiglia che gli impediva di spiccare il volo e raggiungere il cielo, l’avrei restituita alle nuvole, alle stelle, l’avrei fatta nuovamente volare innalzandola con le note dell’appassionata di Beethoven, della D960 di Schubert, dei notturni di Chopin, degli studi di Debussy”.
La scala scricchiolò ancora, comparve una figura pelata e grassoccia che con andamento ciondolante scendeva i gradini, il vocione di padre Carhal tuonò come un trombone “prendi il caffè e vieni qui a tavola Itzhak, Eugene sta raccontando la sua storia…”. La faccia assonnata dell’uomo si arrotondò in un sorriso “E’ già arrivato alla palestra?” “ancora no, ancora no…” rispose padre Carhal.
Mentre Itzhak il violinista si sedeva con noi, il racconto di Eugene riprese con la medesima voce di prima “Il giorno dopo aver parlato con la bellissima ragazza, mentre camminavo per strada fui additato da un gruppetto di ragazzi “ecco il salvatore, il salvatore di ragazze mascherato!”, mi fissavano sghignazzando e capii che il bellissimo angelo aveva rifiutato il mio aiuto. Da quel giorno la parola “il salvatore” e le risatine beffarde mi accompagnarono per strada.” La scala di legno non scricchiolò sotto il lieve peso di Viola che scese, pallida di sonno, si mise a tavola seduta accanto a me, poggiò la testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi sussurrandomi “mò brucia tutto quanto!” e si accoccolò sul mio braccio come un cucciolo che dorme nella propria tana.
“Tutti i ragazzi del paese” proseguì Eugene “erano in tumulto per la festa che si sarebbe tenuta quel giorno nella palestra comunale, musica pietosa, birra scadente, snacks e stuzzichini di bassa qualità. Le ragazze si scambiavano pareri su come si sarebbero vestite, i ragazzi fantasticavano sui fiumi di birra che sarebbero scorsi, io aspettavo che fossero le 17. Il giorno precedente avevo dato dei soldi al tizio che si sarebbe occupato della musica, gli avevo spiegato che si trattava di uno scherzo e che lui alle 17 in punto doveva alzare il volume e mettere il cd che gli avevo consegnato. Alle 16,50 entrai in palestra, mi guardai attorno ma nessuno badava a me, le ragazze cinguettavano, i ragazzi strillavano facendo i buffoni. Con la bottiglietta che mi ero portato bagnai un pochino con della benzina alcune grandi tende, poggiai per terra, sotto il tessuto inumidito, delle piccole candeline che lasciai momentaneamente spente. Guardai l’orologio, 16,59. Feci il mio breve giretto lungo le pareti e accesi le mie piccole candeline. Uscii con apparente indifferenza, presi la spranga che avevo preparato e bloccai l’ingresso dall’esterno. Aspettai. In pochi secondi si diffusero prima vocine stridule poi grida sempre più numerose, sempre più disperate, intanto iniziò a suonare ad alto volume, maestoso e imponente, il preludio e fuga in mi minore BWV 548 di Johann Sebastian Bach. Un bagliore arancione sfavillava dalle finestre, attesi qualche minuto, lasciai che l’organo chiudesse la magistrale composizione e aprii il portone, fuoriuscì fumo e vario e indistinto materiale umano un poco intossicato, colpi di tosse e spavento nell’aria, il mio scherzetto era riuscito, pensai. Più tardi però venni a sapere che alcuni ragazzi si erano feriti tentando di uscire da un’alta finestra posta a circa tre metri su una parete della palestra, uno rimase infilzato da uno spuntone di vetro e ci lasciò le penne. Inutile fu spiegare che avrei voluto solo fare uno scherzetto magari un pochino pesante, tutti mi diedero del mostro, del maniaco e così finii nel reparto del nostro caro padre Carhal…”.
“Ah ah ah ah! Il nostro pazzo salvatore piromane!” esclamò Itzhak dando una pesante pacca sulla spalla a Eugene che sorrise, e sorrise anche padre Carhal, mi aggiunsi anch’io e quella giornata cominciò con un sorriso ed una buona tazza di caffè. Viola, la sua testa poggiata sul mio braccio, dormiva come un pallido angelo desolato.

venerdì 29 aprile 2011

la casa delle tre grazie


...Sono passati alcuni giorni, una settimana credo. Da una settimana mi trovo nella “casa delle tre grazie”, il ricovero per vagabondi, psicolabili, disagiati e artisti di strada coordinato da padre Carhal, un poderoso omone di origini irlandesi che tutti qui chiamano “padre” pur non essendo un prete. Ha lavorato come psichiatra in un rinomato ospedale di una grande città, poi per via dei suoi metodi stravaganti è stato estromesso e alla fine è stato relegato a dirigere questa strana comunità ai confini del mondo. Nella grande sala rischiarata dalla luce arancione e tremolante del fuoco io e lui sorseggiamo un po’ di cognac, mentre Viola, in silenzio e col volto completamente assorto e l’animo sprofondato nelle sue fantasie, accarezza la tela col suo pennello, ispirato lento ed ipnotico, come le parole di uno sciamano in trance.
Mi ha parlato, padre Carhal, dell’importanza per ogni uomo di quella che lui chiama “valvola dell’occhio spirituale”, una valvola di sfogo per la creatività, la fantasia ma anche le angosce e le paure, le ansie che, come si sa, se si accumulano nell’animo generano mostri. Ognuno alla casa delle tre grazie ha la sua personale valvola dell’occhio spirituale: chi dipinge, chi scrive racconti o poesie, chi realizza piccole sculture in legno, chi suona. Non tutti, mi ha spiegato padre Carhal, hanno la necessità di questa valvola di sfogo; gli animi mediocri hanno la capacità di sentirsi completamente a loro agio nella bassezza della mediocrità, il loro animo non è in grado di produrre mostri. Mentre parlavamo di ciò, Viola era totalmente assorbita dalla tela che aveva davanti, le nostre voci, le nostre presenze non la sfioravano nemmeno, una rara, atipica e trascendente viola del pensiero. Stava plasmando, al centro della tela, una deflagrazione di colore rosso acceso che si stagliava su uno sfondo che, dal nero dell’esterno, sfumava man mano che ci si avvicinava al centro in un viola cupo, angoscioso e rattristante. E al centro quella cruenta ed efferata esplosione di sangue, un falò di tormento, passione e martirio. Viola aveva la mania di cercare di fissare, sulla tela, la vitalità che esplodendo con violenza diventava, in un attimo cruciale, morte. Voleva immortalare quell’istante. E per farlo aveva decimato lo stuolo di animali domestici che pervadono il cortile del caseggiato, come mi aveva raccontato padre Carhal con tono tra il serio e il divertito. Usando dei petardi e dei piccoli fuochi artificiali che padre Carhal si era fatto portare per festeggiare il capodanno, la bizzarra quattordicenne aveva dilaniato una certa quantità di anatre, galline e oche, lo faceva con l’austerità di uno scienziato che osserva e annota i fenomeni che vuole studiare. Il suo sogno, però, era quello di squarciare con l’esplosivo un bellissimo cigno immacolato. Mentre padre Carhal mi raccontava ciò, lei aveva lo sguardo fisso alla tela, uno sguardo nero lucido, intelligentissimo ed estremamente vivace, incastonato in un amabile visino pallido contornato da un caschetto di capelli neri un poco mossi. Immaginavo il suo sorrisino brillante e pungente mentre aveva la faccia cosparsa di sangue e frattaglie, immersa in una vorticosa nube di piume svolazzanti. Quando privo di coscienza fui portato in casa da padre Carhal, lei mi prese subito in simpatia e si prese cura di me, una volta che mi fui ripreso spesso mi portava in camera la minestra o qualche infuso preparato da padre Carhal, stava ore seduta accanto al mio letto, in silenzio, leggendo, o guardando fuori dalla finestra della mia camera. La fiamma danzava nel grande camino proferendo arcane parole silenziose, la mia anima in fuga dal mondo aveva trovato un favorevole e temporaneo rifugio isolato...

mi avvicino alla finestra e vedo gente tutta uguale, i suoi sogni, se ne ha, sono così piatti. mi sento uno straniero, non smentisco chi asserisce di conoscermi.
la solitudine è un petardo esploso nel mezzo di un palazzetto desolato. piove anche se l’aria è asciutta e calda. da lontano, molto lontano, il languido suono di un’armonica . emano grigiore come un cadavere emana il suo fetore. dormo da diversi giorni, anche mentre sono in piedi e cammino. ho sciolto il cappio che mi teneva ancorato al molo, alla deriva mi lascio andare, apatico come un vascello anarchico senza equipaggio. le ballerine che allungano la mano per sfiorarmi sono ingenue sognatrici che vorrebbero toccare la luna. mi piacerebbe urlare accompagnato da un fragore di chitarre elettriche, il mio urlo direttamente dalle recondite e oscure profondità della mia caverna. intanto mi scortico la pelle contro le pareti di roccia appuntite. mi scortico e grido, avvolto dall’umidità della mia solitudine. il mio sangue scorrerà come un fiume sotterraneo, senza mai vedere la luce del sole.

mercoledì 27 aprile 2011

rido del mio momento di sconforto appena trascorso. mi prendo in giro perché anche (e soprattutto) nei momenti di massima vulnerabilità sono così diverso dal resto dell’umanità che mi circonda. placo la mia angoscia scrivendo e scrivendo sorrido mentalmente. sprofondo sofficemente nel mio mare d’inquietudine. curioso come quando la solitudine ti esplode dentro, con deflagrante potenza, si senta un reale, concreto freddo, un gelo che s’irradia dal centro dell’anima, si estende dentro le ossa e da lì impregni i muscoli, la carne, le vene, fino a giungere a fior di pelle. un freddo palpabile, asfissiante, che ti porta a trovare consolazione in una coperta. spegni tutto e ti ritrovi accoccolato nel buio, completamente avvolto nella coperta, dentro un soffice sarcofago che ti isola dalle sfocate immagini, dalle indistinte voci portate dal vento.

sabato 23 aprile 2011

mi sento così bene, sono così bello. mi sento bello come il cristo del mantegna, bello come se stessi per morire. vago presentimento, come un’immagine sfumata in bianco e nero. ho ripreso a pensare in versi, come ai tempi della mia stagione. decine e decine di versi sbrindellati, dispersi dentro la mia scatola cranica, sostenuti e trasportati da un’insana brezza squilibrata. chissà dove si vanno a posare. forse ho una sorta di trascendentale inceneritore , dentro la mia testa. probabile.
poco fa pensavo al notevole dualismo che sussiste in certe anime. pensavo a quelle anime che più sono a contatto col mondo civilizzato e perbene e più sviluppano, simultaneamente, una componente oscura e tribale. componente che quasi mai vede la luce del sole. troppo scomoda, tormentata e degenerata per mostrarla ad altri. troppo forte la sensazione che gli altri non capirebbero. sorrido mentre scrivo la frase “la sensazione che gli altri non capirebbero”. quanti anni di convivenza con questa frase! delle volte mi piace pensare alla mia anima spiattellata su una tela, una tela grande quanto una parete. che capolavoro verrebbe fuori! un capolavoro che il mondo non vedrà mai. qualcuno può solo percepire il profumo della mia anima e, se ha l’olfatto abbastanza sensibile, può restarne inebriato. estrema e profonda sintesi della mia esistenza.
ma davvero la vita di molti si ferma al “auguri-buona-pasqua-cosa-fai-dove-andrai-baci-bacini-e-bla-bla-bla” ? ho messo il punto interrogativo ma non me lo chiedo sul serio.
ultimamente mi vedo sempre più bello. forse perché cresce ogni giorno di più il disinteresse per la moltitudine. più che crescere forse dovrei dire “affiora”. se campassi cent’anni forse quella componente oscura e tribale emergerebbe a fior di pelle, chissà. e finirei a fare una vita da buffone, o finirei in un reparto psichiatrico. molto, molto bohemien.
credo di essere dipendente da me stesso. come dico spesso, credo che senza di me morirei. sono la cosa più bella e importante della mia vita. il resto è contorno.

mercoledì 20 aprile 2011

nico



da giorni penso in continuazione a Nico, proietto interiormente la sua immagine, ascolto la sua voce. se è giorno, ascolto le sue canzoni con la tapparella della stanza parzialmente abbassata, con le sole fessurine a far passare qualche spiraglio di raggio luminoso. per chi non la conoscesse è la bellissima e teutonica valchiria che cominciò la carriera come modella negli anni ’60, fece poi l’attrice (anche per fellini ne La dolce vita), divenne in seguito una delle muse di andy wharol che la fece diventare la chanteuse dei velvet underground. tra i suoi amori figurano brian jones degli ‘stones, jim morrison, alain delon (da cui ebbe un figlio), john cale dei velvet underground etc etc.
una volta abbandonati andy wharol e i velvet underground, la casa discografica e i vari imprenditori che la volevano proporre come una bambolona bella e smielosa, dà libero sfogo all’espressività della sua voce, divenendo l’anticipatrice di tutta la musica dark. un canto desolato il suo, sofferto e recitato. consiglio the marble index (1968), desertshore (1970) e the end (1974), che contiene una cover dell’omonima canzone dei doors.
comunque, da qualche giorno penso a lei, cerco di penetrare l’immagine che ho di lei, so che da qualche parte annuisce e acconsente affinché faccia parte della sua lunga schiera di amanti, sento la sua voglia di succhiare la mia mente. lei annuisce ed io le dedico alcuni dei miei pensieri. mi sbranerebbe come una leonessa e mi abbandonerebbe tra gli avvoltoi. anche lei un bellissimo esemplare di pagliaccio, in confronto io, ahimè, sono un dilettante.



piogge di petali(a Nico)
.

piogge di petali
sulla mia voragine
sulle mie pagine
sulla mia dorata
sottile cartilagine
aliti di vento
sulle mie dune sabbiose
.
scaglie insanguinate
campanule e mimose
rose dalie e celosie
piogge di petali
su tutte le mie donne corrose
.
grandinate di accuse
scrosciano
come acuminate lance impietose
migliaia di silenziose spose
passeggiano
avvenenti e rabbiose
sui tappeti delle mie mattinate
sublimemente angosciose
.
piogge di petali
sulle mie allucinate prose
sanguinano parole
carezzevole canto
abbacinato pianto
note religiose
lacrime artificiose
floreali schegge
di poesie e canzoni inesplose
.
vergini farfalle deformate
svolazzano
come miriadi di vagine colorate
fredde lapidi leggere
sbattono le loro ali velenose
sulle mie ore solforose

sulle mie giornate inesplorate


domenica 17 aprile 2011

non m’interessa delineare ciò che m’interessa. se trovo una cosa interessante non mi preoccupo del motivo per cui tale cosa desti il mio interesse. generalmente le cose che mi stuzzicano intellettualmente non le sottopongo ad una riesamina al microscopio, non le seziono chirurgicamente, con minuziosi processi freddi ed emotivamente distaccati. che si tratti di un libro, una poesia, un film, una canzone, un dipinto o altro, tendo a tenere un lato oscuro, non rovino l’atto di seduzione con un riflettore troppo forte sparato a mille. non m’interessa comprendere analiticamente ogni centimetro, ogni secondo, ogni parola, ogni immagine. è sempre stato così per me, fin da quando ero troppo piccolo per rendermene conto. nelle cose che guardo non cerco niente, sono le cose che mi colpiscono che mi cercano, che mi vengono incontro, che mi vengono a trovare. spesso trovo interessante osservare la paura, l’effetto destabilizzante che produce negli individui. è come osservare le persone nude, ai raggi x, vedo la precarietà della vita formare crepe, indebolire certezze, minare tranquillità che si pensavano solide e granitiche. penso alla mia anima come ad una pellicola sensibile, capace di catturare immagini astratte. mi capita di vedere con un colpo d’occhio cose che gli altri non scorgono, soprattutto se il loro sguardo non è indirizzato da una faro che li guidi.

venerdì 15 aprile 2011

per qualche attimo ho creduto di aver trovato la mia speculare creatura femminea. mentre mi recavo a lavoro, avvalendomi delle mie segrete e boschive scorciatoie, ho notato che ad una ventina di metri mi precedeva una ragazza. l’ho seguita senza farmi vedere e…. cazzo, è passata attraverso uno dei miei pertugi sulla reticella! qualcuno stava usando i miei clandestini passaggi segreti! una volta attraversato il pezzetto di bosco ho salutato la tizia e dopo due chiacchiere abbiamo preso un the alla macchinetta. un’altra indistinta faccia dell’adespoto pubblico del mio show. probabilmente senza rendersene conto, la tizia usando la mia scorciatoia stava facendo la cosa più sublime della sua vita. ma questo non lo saprà mai. perché una mente piccola, in un buco in una recinzione metallica, vede solo un’apertura che consente di accorciare la strada consueta per giungere in un determinato posto. vabbè, se oserà diffondere l’esistenza della scorciatoia sarò costretto a sopprimerla. il mio insano disinteresse per le creature viventi gode ancora di ottima salute. una celestiale spossatezza impregna le mie membra, disordine viscerale, disordine di libri sul pavimento, accanto al divano e accanto al letto, musica fluttua per la casa come rugiada che non ha voglia di posarsi sul terreno. l’inferno e tutti i suoi diavoli devono essersi trasferiti tra le mie viscere, dannata colite! in confronto a quello del mondo esterno il mio disordine viscerale ha qualcosa di supremo, è un’orgia di muco e sangue e secrezioni che si attorcigliano come velenosi serpenti in amore. è un pianto che si consuma in silenzio, come un fuoco che affumica pareti mai accarezzate dalla luce del sole. la piccola banda amatoriale suona, per le strade, popolari musichette che vorrebbero accomunare cuori come tante perline di plastica colorata, collanine prive di alcun valore estetico. le mie mura sottili sono bianche e dolcissime e mi separano dai piagnistei a buon mercato. sprofondo nella sofficità dei miei pensieri. non ho parenti al di fuori di queste mura bianche. mi fondo con me stesso, un nudo cubetto di ghiaccio abbandonato sul pavimento, sgocciolante suggestive inquietudini lontane dall’aria mondana, distanti dalle voci che popolano le frenetiche vie che accolgono umanità che somigliano a vacue bottiglie con la scritta “vuoto a perdere”. il confort è per i mediocri, le anime fulgenti veleggiano tra acque inquiete, sfiorando lame che affiorano come scogli dal fondale scuro delle loro profondità. ogni estate è lontana, ogni sole dimenticato, ogni calore oscurato da migliaia di notti lucide e inaccessibili. un ancestrale arpeggio ha compiuto l’assassinio del popolaresco rumoreggiare stradaiolo. la splendida dama ottocentesca intona un solitario lamento triste e doloroso, ci sono il cielo e tutte le nubi della storia nel suo canto. respiro il suo canto, mi lascio condurre nel buio più buio, nel petrolio del mio pozzo. così solo, così libero. la notte ha una giovinezza immacolata che nessuno può scalfire.

mercoledì 13 aprile 2011

solitudine, rifletto sullo star soli e ovviamente la cosa più positiva che balza alla mente è la libertà. libertà dai compromessi, vabbè, fin troppo ovvio. ma anche la libertà di non essere usati. usati per occultare insicurezze, allontanare paure, ottenere tepore e premure. ultimamente gli angoli che avevo volontariamente smussato hanno ripreso il loro acuminato aspetto di una volta. sono un educato e perbene ragazzaccio che si piega il meno possibile ai dettami sociali. non gioco a fare il chiassoso sovversivo, a sbandierare ai quattro venti atteggiamenti ribelli. la mia è la libertà del pagliaccio che, tornato a casa, si toglie il trucco di dosso, sorride e si compiace guardandosi allo specchio. più sono solo e più sento, tratteggiando la mia mente col dito, le asperità taglienti che mi piacciono tanto. una volta, uscimmo in compagnia, tra gli altri c’era anche mio fratello e una sua amica che s’interessava a me, lei chiedeva a lui di me e lui se ne uscì dicendo “lo vedi così ma è matto, è matto come max di “c’era una volta in america”…” io sorrisi perché il paragone non era affatto appropriato, del resto mio fratello non ha neanche l’un per cento del mio acume psicologico. le mie stranezze sono bagnate dal mare della riservatezza, la prima immagine che mi salta in mente, pensando alla mia stranezza, sono i miei cieli stellati adolescenziali. quanto ero bello e strano, a sedici anni, sotto quei cieli così profondi, quando tutto svaniva e tutti rientravano a casa, io, provetto pagliaccio, sotto quei cieli riflettevo il mio sguardo sulla luna e mi fondevo con quel cosmo, mi sentivo così splendidamente solo. li ricordo così bene quei cieli, osservati dal giardino della casa dei miei. una volta, erano le tre, le quattro del mattino, mi trovavo in giardino a fissare e ascoltare il mio cosmo, un barbagianni si posò su un albero a pochi passi da me, io mi spaventai un po’ e feci un pochino di rumore, era estate e la finestra della camera dei miei era aperta, si svegliarono e mi toccò rientrare in casa. il mattino dopo “abbiamo sentito un po’ di rumore, abbiamo visto un grosso uccello bianco e tu eri fuori, ti sei spaventato eh!” e tutti a ridere eheheheeh. ma dei miei cieli, del mio cosmo, che cosa ne potevano sapere? comunque la storia del batt che si prese uno spavento per l’improvvisa visita di un barbagianni tenne banco per un po’ ed ora, bè, la sapete anche voi ehehheehhe

domenica 10 aprile 2011

stamattina alle 6 tormenti e spasimi a contorcere le mie viscere, quasi come la volta scorsa. questa volta, però, con la fierezza e il coraggio di un giovane capitano achab, ho tentato di andare a lavoro. già, tentato… fatti due o tre passi, oltre il portone, un’improvvisa secchiata di sudore freddo mi ha gelato sul posto, mentre sentivo che le gambe non mi avrebbero sorretto per più di tre o quattro secondi. mi accovaccio per terra poggiando la schiena sul muro. due, tre minuti così, poi vado avanti, forse riesco a fare sei o sette metri e penso che la cosa più sensata da fare sia sedermi su una panchina, sul ciglio della strada. brusco e violento esplode un conato di vomito. vomito per strada come un barbone, come un ubriacone, come un ragazzino appena fuori dalla discoteca, come uno sbarbatello che ha deciso di affogare in un bar la sua delusione amorosa, vomito per strada come un animale. raccolgo tutte le mie forze per tornare a casa, mi sembra quasi un’impresa impossibile. anche telefonare per avvisare che non andrò a lavoro è un’impresa mastodontica, comporre il numero e articolare qualche parola mi costa tantissima fatica. mi butto sul letto supino, con le braccia spalancate come su di un soffice crocifisso. senza anima, senza neanche pensieri, sento solo il sudore gelido sulla pelle che immagino bianchissima, totalmente priva di sangue, di vita. non dormo ma non soffro neanche tantissimo, quando il cervello decide di analizzare la situazione, la mia attenzione si concentra su di una morte completamente solitaria, dentro una bianca stanza che comincia ad essere baciata dalle prime luci dell’alba. ho la forza e il coraggio di restare solo, non mi sfiora nemmeno l’idea di inviare anche un solo sms per ricevere un microgrammo di inutile tepore umano. vabbè, sapevo benissimo che non sarei morto sul serio, questo è vero. ora pieno pomeriggio, da stamattina che mi gongolo tra cd, libri, cd e libri. ora forse riesco ad ingurgitare un po’ di pastina in brodo rigorosamente liofilizzato (quest’ultima cosa, ahimè, la cosa più triste e raccapricciante della storia).

sabato 9 aprile 2011

solo, come un finestrino del treno che osserva ogni paesaggio passare, senza occhi che lo attraversano. le cose grandiose, meravigliose, le lascio dentro, non le libero all’aria aperta, si rimpicciolirebbero come figurine adesive prive di fascino. quello che faccio è solo zampillare un po’ del mio sangue, sanguinare come un dio pagano, mille volte morire dissanguato, straziato sull’altare della mia bellezza personale. mi bagno nel lago della più soave delle crudeltà, tutto questo senza che gli altri vedano, comprendano. sono un dio. a modo mio lo sono. con umane fragilità che mi donano una grazia che nessuno può vedere. affogo nella mia follia, quando posso farlo lo faccio senza ascoltare voci, senza indossare mimetici indumenti sociali, follia-libertà, coraggio di fuggire, estraniarsi, abbandonarsi a se stessi. sono un moderno, giovane dio pagano sbocciato nel cemento. sono un concentrato di parole sgrammaticate con una miriade di grovigli di suoni e rumori che come rovi si arrampicano avvoltolandosi con le loro spine. mentre i vostri visi s’illuminano stroboscopicamente davanti agli spot pubblicitari, io gioco a punzecchiarmi con le mie spine invisibili, divine lance che mi trapassano regalandomi estasi a voi negate. indossare i panni del pagliaccio significa non parlare in questo modo, di queste cose, con chi mi circonda. sono stato un uomo, un ragazzo, un astro e un amante. sono un moderno e giovane dio pagano con abiti modesti. galleggio ma è come se volassi come un maestoso uccello dalla bellezza fiabesca. sono l’uccello di fuoco e se vi sfioro, se vi sembra d’intravedermi, è solo una mia piuma che vedete…

giovedì 7 aprile 2011

la mia anima è meravigliosa, anche quando scende a terra e cammina tra gli uomini. io ho la fortuna di vederla, la sua pregiata bellezza invisibile agli occhi miopi dei corpi ambulanti. qualcuno asserisce di avermi perlomeno intravisto, di avermi sfiorato. molti dubbi e gran disinteresse. se mi hanno anche solo intravisto, buon per loro. non gioco a fare il narciso, do voce alla mia distanza, alla mia unicità, che mi pugnala amabilmente da quando son nato. quanto sono bello nei panni del giullare grigio e solitario, ho un sorriso interiore, imbevuto di malinconica desolazione, che è una meraviglia caravaggesca. nessuno saprà mai quant’è profondo il mio sorriso (e la mia tristezza). eppure, chi si bagna il dito nel mio pozzo, parla di profondità sconvolgenti o, perlomeno, affascinanti. comunque belle. la verità è che il fondo di quel pozzo lo conosco solo io, il resto sono stralci di debolezze che prendono vita, visioni che si fanno carne, ornamenti preziosi per la vanità della mia splendida dama ottocentesca che si abbiglia guardandosi allo specchio, con la genuinità di una bellissima dea immortale che nulla teme. la verità è che anche stanotte andrò a dormire da solo, e sarò con la persona che più mi comprende, la sola creatura che abita gli inesplorati tunnel della mia esistenza.nessuno può vedermi, nessuno può toccarmi. ciò che vedete di me sono solo alcuni spruzzi del mio sangue. nessuno può ascoltarmi sul serio. vado da me stesso. abbraccio lo splendido giullare che sono. nessun conforto oltre la consapevolezza, l’unicità, la solitudine.