martedì 30 ottobre 2012

Nessuno al mondo è solo quanto me. Sono completamente, meravigliosamente sola. Un isolotto bianco di marmo in un mare urbano di cemento. Senia e Lara non le vedo da un sacco di tempo. Ancora da più tempo non esco all’aria aperta. Ancora da più tempo non esco all’aria aperta durante il giorno. Mentre il sole fa il suo lavoro scorrendo lento nel cielo, io affogo in artificiali sonni chimicamente indotti. Dieci, dodici ore di ininterrotto sonno senza insegne luminose. Sono un pallido pipistrello diciannovenne alto un metro e settantaquattro. Attendo che il tramonto si annulli nella vorticosa voragine della notte incombente, mi scolo una birra accendo una sigaretta una sorsata di jack dalla bottiglia, accendo la voce di Thom Yorke che canta per me idioteque, altro bacio alle vetrose labbra di jack, indosso jeans converse nere t-shirt nera e giubbino in pelle nera, alzo il volume altra sorsata di jack e altra sigaretta. Esco. Cammino per strada senza incontrare nessuno, forse ci sono persone per strada ma non m’interessa vederle e non le vedo, non vedo nessuno. Cammino sino al Rock Island, mi soffermo davanti all’entrata per fumare una sigaretta, una manciata di ragazzi chiacchiera e ridacchia stupidamente, all’interno sento suonare cherry lips dei Garbage. Entro. Passo davanti al bancone, ordino patatine fritte e una media rossa, saluto Jim Morrison Patti Smith Jimi Hendrix David Bowie Janis Joplin Mick Jagger tutti in bianco e nero appiccicati alla parete, do un’occhiata alla sala semibuia e mi dirigo nel tavolino più isolato, mi siedo dopo aver gettato il giubbotto sul divanetto di pelle bordeaux. Arriva la ragazza con la mia media rossa e le patatine mentre suona alta roll with it degli Oasis. Una sorsata di rossa con fare distratto mangio patatine, sul tavolino di legno qualcuno ha inciso “Angela sei una troia”, il mormorio delle persone sparse nei tavolini è soffocato dalla penombra e dalla musica, ora suonano i Ramones, finisco la birra, sono bellissima e solitaria nel mio tavolino, ordino un’altra media rossa, Angela starà scopando chissà con chi, svogliata mangio qualche altra patatina tiepida, sono sola e voglio stare sola, mando mentalmente a quel paese il mondo intero ingurgitando una mega sorsata di birra, sono un pallido pipistrello solitario. Sono. Un pallido. Pipistrello. Solitario. Passo alcune ore al mio tavolino, ogni tanto approda qualche ragazzo che abbandona momentaneamente la sua insulsa compagnia per tentare di approcciare la vostra Cry che con gelido e cortese distacco respinge la mediocrità ambulante. Esco, fumo una sigaretta, rientro e passando dal bancone ordino un irish coffee, un amaro, un rum e una tequila, arriva la ragazza col vassoio, sorride posando i bicchieri sul tavolo, i Pearl Jam con even flow, l’alba ancora lontana, una di queste notti tornerò qui con le mie due amiche, stanotte sono troppo gelida anche per loro, ho voglia di galleggiare solitaria sulla notte per tornare a casa poco prima che spunti il sole, tornare a casa e crearmi una mia notte capovolta. Arriva puntuale roadhouse blues cantata da Jim, scolo i miei bicchieri, prendo una penna dalla tasca del giubbotto, scrivo nel mio avambraccio “sono un pallido pipistrello solitario” poi schiaccio la punta della penna contro la pelle, premo forte senza bucare, sorrido passandomi le dita tra i capelli, penso che tra qualche giorno dovrei andare a fare spese dal mio pusher farmacologico, mi sento bella e gelida e senza sangue. Vado in bagno, quando esco mi dirigo al bancone, mi siedo sullo sgabello e dico al tizio dietro al bancone “quattro tequila”, lui che mi conosce non commenta e prepara la fila di bicchierini che scolo meccanica e veloce, ringrazio il tizio per non avermi rivolto la parola accennando un sorriso sommesso, parte space oddity di Bowie, torno al mio tavolino, prendo penna e un foglio di carta dal giubbotto e scrivo “la gente che mi attornia è un banco di pesciolini rossi muti che tagliuzzerei volentieri con fredde forbici affilate, vorrei che iniziasse a piovere, vorrei camminare sotto una pioggia blade runner, vorrei rinfocolare la solitudine di questa notte con cristalli di ghiaccio e indifferenza. Sono un pallido pipistrello solitario”. 

venerdì 26 ottobre 2012

Jim Morrison


Continuano ancora a vedermi come un pagliaccio vestito di pelle nera, il mio volto dagli zigomi pronunciati e la mia chioma leonina la vedo in un’infinità di poster, magliette, adesivi appartenenti a gente che non ha la più pallida idea di chi ero, di cosa ero. D’accordo, ero anche quello, un luccicante ingranaggio dello show business. Nessuno mi vede mai nella solitudine di una scalcinata stanzetta, mentre tranquillamente leggo per ore, in silenzio. O mentre trascrivo i parti della mia mente, fecondata da letture, film e da qualche acido. Una delle cose che affascina la gente è la mia inclinazione all’autodistruzione. Probabilmente, in primis, perché è una cosa contro natura. Normalmente la gente si fa in quattro per mantenere bassi i livelli di colesterolo nel sangue o cose così. Poi perché la violenza da sempre attrae le persone, ben lo sapevano gli imperatori romani che per farsi benvolere organizzavano i loro giochini. Vedere una persona che si fa del male, che si brucia temerariamente, affascina la gente. Io, anziché uccidermi, o farmi uccidere dalla vita, ho deciso di uccidere la vita. Dovevo scrivere canzoni, fare servizi fotografici, interviste, trasmissioni tv, spettacoli vari? Bevevo efferatamente per restare me stesso, per non diventare un prodotto per famiglie benpensanti, carino e preconfezionato. Era un modo di chiudermi in me stesso mentre, allo stesso tempo, deflagravo come un vulcano con variopinti zampilli provenienti dal magma della mia mente. Un esempio di come la vita cerca di ucciderti? Quel cazzo di processo, che succhiò così tanta linfa dalle mie vene. Oppure tutte quelle stronzatine che subdolamente ti inculcano sin dalla nascita, lavorare sodo per comprare tutte le cose che loro ti dicono di comprare, per diventare come loro ti dicono che devi diventare. Ed io bevevo, sempre, continuamente, sempre. Mi piacerebbe parlarvi di cosa provavo nel fare musica, del mio periodo parigino, di come mi prendevo gioco di chi faceva un sacco di soldi attraverso la mia immagine, sapete, c’era sempre un pizzico d’ironia in tutto quello che facevo. Poi mi piacerebbe parlarvi di Pam. Ma lo spazio concessomi è finito.

lunedì 22 ottobre 2012

interstellar overdrive


oohhhh… da non so quanto tempo ascolto in cuffia (le meravigliose bose da 120 euro che mi hanno prestato) interstellar overdrive, dal primo album dei floyd. in continuo repeat, stupefacente smarrimento ricco di lancinanti e stellari suoni dissonanti, strillante delirio siderale composto dal mio amico syd barrett… scrivo queste righe col suono che mi infilza piacevolmente il cervello e l’animo e le membra e tutto il resto… distorte grida astrali, uno di quei momenti in cui sovviene il pensiero “nessuno può capire…” … il circo è così lontano, gli umani terribilmente diversi, i miei occhi ricettivi come luminosi spilli conficcati nel più fondo nero che si possa immaginare… trovo difficile persino scrivere con il suono che mi trapassa come una lama lucente e affilata, volume elevato, immagini sonore esuberanti e potenti come accecanti ruggiti cosmici… scrivo e pubblico così come mi viene, senza ragione, senza pensare, la pelle etereo pregiato tamburo sconclusionato… syd, uno dei miei eroi…

P.S.

se qualcuno leggendo prova a cercare e ascoltare la canzone su youtube giuro che lo uccido. cd e cuffie e occhi chiusi. bon voyage

sabato 20 ottobre 2012

Mi sveglio, senza preoccuparmi se nel cielo ci sia il sole o la luna. Mi sveglio con in bocca il saporaccio di molteplici ore di robusto sonno chimicamente indotto. La pelle che mi riveste il corpo è bianca e fredda, lo sguardo è quello di una moderna bella addormentata nelle profondità di una caverna ghiacciata. Per chissà quanto tempo resto seduta sul letto con lo sguardo perso nel vuoto, il mio sguardo nero, la mia pelle bianca, tutt’attorno il vuoto. Mi alzo, il pavimento bianco avverte il freddo dei miei piedi scalzi. Sono più pallida del solito, il sangue che dovrebbe scorrermi nelle vene dev’essere andato a farsi un giro tra le pieghe dei miei sogni imprigionati nel mio inconscio. Scolo una mezzo litro d’acqua, accendo una sigaretta, lo stereo mi regala una potente e colorata e pirotecnica crystalline di Bjork. Sono di una gelida bellezza disarmante. Tra poco probabilmente mi vestirò ed uscirò a fare due passi nel vostro cazzo di mondo. Adesso mi guardo allo specchio e sono semplicemente bellissima. Sono. Semplicemente. Bellissima. 

mercoledì 17 ottobre 2012

Baudelaire

Dicono che in letteratura io abbia inventato la modernità. Semplicemente ho fatto quello che facevano gli artisti romantici davanti ai tramonti, i mari in tempesta, la luna, i boschi. Solo che io vivevo in città. Uno scrittore, uno scrittore che si rispetti intendo, come prima cosa “vede”, “sente”, percepisce ciò che gli sta attorno, senza fare calcoli, come quando passiamo davanti ad una bancarella di un fioraio, o ad una latrina, e sentiamo il profumo, o la puzza, senza dover fare niente, abbiamo il naso e questo ci basta per avvertire l’odore. In città sentivo ovunque l’odore dei vizi, della miseria, della povertà, della bellezza, della morte. Non ho fatto altro che tradurre queste cose, anzi scolpirle nel marmo della scrittura. Il poeta davanti alle normali incombenze della quotidianità soffre, il suo talento, la cosa per cui è nato, che gli riesce meglio, è filtrare la vita attraverso la sensibilità del suo animo, deve essere libero di sguazzare nei profondi abissi della sua solitudine. Posto in queste condizioni sarà in grado di emozionare, dipingere immagini che suscitano sensazioni, scaldano cuori, ravvivano gli animi, raggelano le vene, forgiano incubi e sogni. Il poeta è come un albatro, l’uccello dalle grandi ali che spesso sorvola le navi. Le sue grandi ali gli permettono di librarsi alto nel cielo con mirabile bellezza ma, se gli capita di cadere sul ponte di una nave, proprio quelle sue ali così grandi lo renderanno buffo e sgraziato e sarà dileggiato dagli uomini dell’equipaggio. Proprio per via delle sue grandi ali, il poeta, quando è costretto a vivere tra la gente, non può fare a meno di sentire quell’acuminato malessere romantico, quel malessere, quel morbo che mi ha reso famoso come il poeta maledetto per antonomasia. Se volete sapere delle mie inquietudini, del mio lato maledetto, vi prego, lasciatemi stare. Tuttalpiù potete rivolgervi ad una persona che ora sta qui con me. Raffinato e dotato scrittore come pochi, in quanto a maledizioni, oscurità e tenebre dell’anima nessuno è mai stato al suo livello. Non dite che vi mando io, non si sa mai come potrebbe prenderla. Ah, il suo nome è Edgar Allan Poe.

giovedì 11 ottobre 2012



in questo momento mi sento alieno e dannato come ai tempi de La mia stagione… il mio scafo corroso dall’aria salmastra ed io che gioco facendo scorrere le dita sulle crepe del legno… ho voglia di esalare parole liberamente, la mia valvola di sfogo, la mia pugnalata nel costato… mi bagno nella mia infanzia, mi specchio nel mio Io… un’elettrica corrente carnale attraversa un iceberg cosmico, notturno e magnificamente antiquato. mi cullo sui flutti immerso nello spazio che mi distanzia dal pubblico accalcato sugli spalti, l’unico volto che riconosco è quello della mia splendida dama ottocentesca. azzero i confini dei pensieri che mi parlano dolci, leggiadri come cigni che nuotano in nere acque silenziose… ho volutamente dimenticato di gettare l’ancora, la notte sbiadita mi accompagna in un’indecifrabile cerimonia in cui risuona l’acuminato profumo del ghiaccio metallico, argentato sperma universale… nudo e smagrito il mio corpo quasi morto sorride avvolgendomi come una pellicola che pulsa con lentezza straordinaria… mmmm cosa stavo dicendo? 

venerdì 5 ottobre 2012

Syd Barrett


C’è chi dice che mi sono completamente bruciato il cervello con gli acidi e le droghe, chi dice che il seme della follia era nel mio dna e sarebbe comunque germogliato, chi mi considera un meraviglioso e folle menestrello psichedelico. Sempre tutti pronti a cercare spiegazioni, giustificazioni, che noia. La verità è che l’anima, così come la vita, va semplicemente vissuta, punto e basta, cercare di appiccicarci sopra etichette è solo un’inutile perdita di tempo. La stragrande maggioranza delle persone è così grigia e noiosa, incatenata dalla sua stessa volontà. La gente ha paura della libertà e si rifugia in un confortante e anonimo conformismo, si mimetizza per non essere una nota stonata nello spartito dell’ampio belato comune. Tutte pecorelle timorose. Io sono nato pecorella colorata e non ho cercato di tinteggiarmi il vello di bianco, semplicemente non mi sono sforzato di mimetizzarmi, punto e basta. Me ne sono sempre infischiato di quello che voleva la gente, ero una rockstar e la gente voleva canzoni, album, concerti, io ad un certo punto mi sono ritirato nel mio scantinato a dipingere enormi tele che regalavo agli amici o a dedicarmi al giardinaggio. Volevano che producessi musica che avrebbero venduto, a me andava di prendermi cura delle mie piante e facevo quello, l’anima, così come la vita, va semplicemente vissuta. Le catene sono così opprimenti, è sorprendente come la gente vada a cercarsele da sé, l’anima è come un uccello, è dotata di ali, è fatta per volare, e la gente fa di tutto per trascorrere una vita intera chiusa in gabbia. Se proprio volete un’etichetta, una giustificazione per la mia follia, credo che sia dovuta proprio al fatto di sentirmi un uccello libero in un mondo di uccelli ingabbiati, mi sono ritrovato completamente solo, isolato nella mia libertà, nei miei cieli alti, nei miei colori, e non ho cercato di evadere dalla mia solitudine, mi ci sono immerso perché così mi andava di fare. E se questa è follia, be’, chiamatela pure come vi pare, a me non importano i vostri giudizi, le vostre etichette. Ho volato alto, sono stato libero, ho scelto di non essere incatenato, di non vivere ingabbiato e, di conseguenza, sono stato sempre tremendamente solo.

martedì 2 ottobre 2012


in molti racconti, molte storie, c’è un amico del protagonista che rappresenta la perdizione, il vizio, quello che nel medioevo veniva etichettato come “vivere nel peccato”, una sorta di povero diavolo sfortunato insomma, che distoglie il protagonista dalla retta via e lo induce a percorrere i binari della dissolutezza, lo induce a rovinare sempre tutto quanto, come lucignolo, tanto per capirci. io quell’amico ce l’ho dentro, fa parte di me e vive in un angolino oscuro del mio animo. il suo dimorare in me è spesso silenzioso, sta in disparte senza disturbare ma è pronto, di tanto in tanto, a ricordarmi che la soffice tranquillità comoda comoda non fa per me. tenersi a distanza dalla confortante serenità comporta un certo carico di tormento ma, diceva il filosofo “io lodo tutto ciò che indurisce, non lodo i luoghi in cui burro e miele scorrono a fiumi”. sono una creatura nata bruciata, lo ripeto spesso e ogni volta lo dico con un certo sorriso un po’ dolce, un po’ amaro, un po’ non-so-cosa. la mia splendida dama ottocentesca è nella stanza con me, ora, mi osserva e mi aspetta. tra poco mi dedicherò solo a Lei e mi abbandonerò alla sua premura. nessuno, probabilmente, camminerà mai al mio fianco. a parte Lei. quando penso al circo, alla necessità di fare una vita da pagliaccio, come contraltare mi viene in mente il guardiano di un faro sperduto in un mare di orizzonte silenzioso. in campo letterario invece, l’immagine che mi si affaccia nella mente è quella di una specie di guardia forestale che trascorre alcuni mesi in una torretta per l’avvistamento di incendi, una torretta come un faro immersa in una foresta, orizzonte fatto di montagne e bosco, un lago, daini e cerbiatti e uccelli. il protagonista vive appieno la sua solitudine, con il suo fuoco per scaldare il cibo, la sua ricetrasmittente attraverso la quale per un’ora al giorno entra in contatto con i colleghi sparsi chissà dove nel territorio. tra desiderio della normale vita sociale, galoppanti fantasie erotiche o spirituali, immagina persino delle intere partite di baseball, le immagina fin nei dettagli, ciò che emerge è soprattutto una meravigliosa solitudine (per la cronaca il romanzo s’intitola “angeli di desolazione”). mmmmm basta scrivere, m'immergo nel mio orizzonte fatto del mio buio, del mio bosco...