sabato 29 settembre 2012

Nietzsche


In età assurdamente precoce, a sette anni, sapevo già che mai voce d’uomo mi avrebbe raggiunto. Io sono la solitudine fatta uomo.

Parole che potrebbero far pensare ad un mostro. Ma nonostante questa consapevolezza, durante l’infanzia, anche per via delle insistenze di mia madre, facevo quello che facevano i miei coetanei, lunghissime camminate, pattinate sui laghi ghiacciati, piacevoli nuotate. Le istituzioni, che si tratti di una madre, della scuola, della religione o del governo, per il tuo bene o per loro convenienza, si assicurano che tu sia normale. O almeno che lo sembri. Ma se uno nasce diverso, perché mai dovrebbe sforzarsi di sembrare qualcos’altro? Questa è una forma di violenza, uno stupro intellettuale approvato dall’inerte società. Ed io facevo buon viso a cattivo gioco, tra passeggiate, nuotate e pattinate riuscivo anche ad avere un’altra vita, e in quest’altra vita mi dedicavo interamente alla lettura, alla poesia e alla musica. Una forma di schizofrenia indotta da una società malandata che, anziché tendere ad esaltare e formare menti brillanti, libere e uniche, tende ad uniformare, appiattire, conformare. In questo devo ammettere che la religiosità della mia famiglia mi è stata di conforto, il protestantesimo prevede l’apprezzamento della musica e della poesia, per le feste religiose sciorinavo davanti alla parentela i miei asprigni frutti poetici. Poi, ad un certo punto, verso i dodici anni, scoprii l’autoanalisi, scoprii il piacere (e l’esigenza) di analizzare e sondare il fondale del mio animo, e cominciai a scrivere le mie riflessioni, spesso partivano da semplici scampagnate, da vacanze e paesaggi, e mi portavano nel profondo del mio Io e, questa tendenza all’autoanalisi, all’esplorazione del fondale del mio animo, non mi abbandonò più per tutta la vita. A sette anni già sapevo che mai voce d’uomo mi avrebbe raggiunto. L’animo umano può sopportare una simile solitudine, senza le spuntate armi di una fede religiosa, senza l’anelito al raggiungimento di uno scopo che non esiste? Forse la risposta risiede negli ultimi anni della mia vita, trascorsi tra manicomi e cliniche psichiatriche. 

mercoledì 26 settembre 2012

radiohead, 25/09/2012


piccolo resoconto di piccolo mini-viaggetto-vagabondo-bolognese con destinazione radiohead. prima il concerto, così se qualcuno vuole sentire le mie impressioni le legge qui e mi risparmio la risposta. i radiohead sono bravissimi e mi piacciono , sono stati bravissimi e mi sono piaciuti. punto.
non mi esalta la via che hanno imboccato con le ultime pubblicazioni, troppo elettronica e ambient per i miei gusti, e il concerto è stato incentrato sugli ultimi album, alias il concerto mi è piaciuto ma non mi ha esaltato.  solo tre brani da ok computer [paranoid android, exit music e lucky (o the tourist, una delle due, le confondo sempre) ], uno solo da the bends (planet telex), stessi dosaggi per kid A e amnesiac, nessun estratto dal primo album. potrebbe esserci qualche imperfezione nella mia scaletta, non ero lì a prendere appunti eh! il palco molto bello, gli effetti visivi esuberanti e superlativi, a parte i pink floyd, che in fatto di effetti visivi sono di un altro pianeta, credo siano i migliori che abbia mai visto. eccellenti effetti visivi che sottolineavano, potenziavano e s’integravano con la musica alla perfezione. è il tipo di musica che fanno ultimamente che non mi scalda, per trovare qualche vampa l’ho dovuta cercare nella perfezione vocale del piccolo alieno-folletto thom yorke, soprattutto nei brani lenti accompagnati dal piano, la sua voce riesce a toccare certe corde, quando vuole. non sono certo uno che va ai concerti per aspettarsi le solite hits, le solite canzoni famose, non sono di quelli che vanno via recriminando “non hanno fatto neanche x o y”. però, cavolo, non hanno fatto nemmeno creep (li ho scoperti con quel video quando erano dei piccoli 14enni, loro eheeh), nemmeno a wolf a the door, karma police o the bends o high and dry (per l’ultima poco male, non mi fa impazzire). comunque loro sono bravi e sono stati bravi.
circa il viaggetto vagabondo….  be’, sinceramente mi sono scocciato di scrivere quindi non racconto nulla, però seppur breve è stato un vero viaggetto vagabondo, con tutti i crismi del caso, ovvero nessuna programmazione o prenotazione, niente orologi, niente fretta, niente facili comodità da pagare a caro prezzo. una cosa importante da dire ci sarebbe, in realtà, una cosa che mi ha turbato (riguarda il mio animo, affinché nessuno chieda di cosa si tratti sintetizzo bruscamente: per alcuni momenti ho desiderato di avere compagnia! a voi potrà sembrare normale ma… se è il sintomo di una mia prossima normalizzazione o “mediocrizzazione” giuro che se riuscirò ad avere la consapevolezza della malattia che sopravviene mi darò in pasto a lombrichi e mosconi prima, poi a fiori ed erbetta, accontenterò il mondo sotterraneo e quello celeste). quest’ultima cosa meriterebbe approfondimenti ma, come dicevo, basta scrivere…

p.s.
un sentito ringraziamento a chi mi ha regalato il biglietto (mi ha regalato un'esperienza)

lunedì 24 settembre 2012

Artaud


Sono stato un attore, cinematografico e teatrale, uno scrittore, un poeta, un mistico, un visionario, sono stato il matto del villaggio e il villaggio era la società tutta intera. Scrissi un saggio su Van Gogh intitolato “Il suicidato della società” e se la società non mi uccise del tutto, mi mandò in manicomio, “ospedali psichiatrici” li chiamavano! Periodi di digiuno, di segregazione, e quei dannati lampi che mi conficcavano nel cervello, “elettroshock” tzè!  Dopo sei anni di queste amorevoli cure giunsi, era l’11 febbraio del 1943, all’ospedale psichiatrico di Rodez. Ero così magro, prosciugato, la barba lunga, gli occhi spenti, avevo dimenticato completamente chi fossi, o forse lo rifiutavo. A Rodez, un luogo notoriamente all’avanguardia per le cure psichiatriche, non ci credereste mai, mi aspettava una cura a base di elettroshock! Ancora quei dannati tangheri in camice bianco, che scambiavano il mio cervello per un uovo da fare in padella! Perlomeno in questo posto usavano anche un nuovo metodo chiamato arte terapia, gradualmente ripresi a scrivere, a disegnare, a leggere e tradurre. Mi dedicai soprattutto, quando si ridestò il mio amore per il linguaggio e la letteratura, ad Alice. Sì, quella del paese delle meraviglie, mi dedicai alla traduzione del VI capitolo di Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll, mi ci immersi in quelle visoni così svincolate da ogni logica. Da giovane elaborai un nuovo modo di concepire il teatro, il mio teatro della crudeltà. Crudeltà che non era una via per causare dolore, era una crudeltà rivolta a tutti gli orpelli che avevano snervato, svigorito e imborghesito il modo di fare teatro. Di dolore, cristosanto, durante la mia vita ne ho sperimentato così tanto da riempire il fondo dell’oceano. Ma voi non ricordatemi come quel relitto rinchiuso in manicomio, quel vecchietto scheletrito e usurato dal dolore, ricordatemi per il mio teatro, le mie poesie della crudeltà, ricordatemi nel film La passione di Giovanna d’Arco, ricordatemi nel mio viaggio in Messico, strafatto di peyote.

sabato 22 settembre 2012

Capitan Harlock



Il mio vessillo è un teschio bianco su sfondo nero, niente di sfolgorante, allegro o colorato. Sono un combattente, un idealista, un nostalgico, un amante della libertà, combatto per difenderla, non sopporto gli esseri viscidi che per aggiudicarsi qualche piccolo privilegio nella loro esistenza farebbero qualsiasi cosa, sono un solitario, dentro me custodisco ferite, tormenti e malinconie che non condivido con nessun altro. Tutto ciò fa di me un romantico, un cavaliere errante dello spazio, un sofisticato don chisciotte interplanetario. Certe volte mi chiedo se valga la pena di dedicare un’intera vita a combattere ma, se l’alternativa è diventare un apatico abitante della Terra, che tutto si fa scivolare addosso dimenticando ogni ideale, persino la gioia della libertà, se questa è l’alternativa preferisco una vita da combattente, preferisco una vita di guerra. Se abbandonassi i miei ideali sarei semplicemente un morto che respira. Il popolo che combatto, le mazoniane, le spietate guerriere dalle fattezze così sensuali, non credo di odiarle, anzi, forse nutro per loro un profondo rispetto. Forse non sono molto diverse da me, sono determinate, combattono fino alla morte per ciò in cui credono. Dal secentesco cassero del mio galeone spaziale ho combattuto mille battaglie e mille ancora ne combatterò, fino a che avrò aria nei polmoni, fino a che un filo di vita risiederà in me. Sapete, forse vi sembrerà una sciocchezza ma quando faccio rotta verso la Terra, per andare a trovare la piccola Mayu, quando dall’oblò della mia astronave intravedo la sagoma della luna, ogni volta sollevo in silenzio un calice di vino, un brindisi silenzioso. Comunque, ogni volta che lo faccio, mi piacerebbe che nella mia nave spaziale ci fosse un bel camino con un crepitante fuoco acceso.

giovedì 20 settembre 2012


certe volte sono rigido, schematico, non riesco a liberarmi. e non parlo del pagliaccio, intendo quando sono solo. grazie a dio capita raramente. non è facile darsi una ripulita ed essere liberi. la stanza tutta bianca tra poco diventerà soffice ed eterno buio, eterno almeno per una manciata di ore. niente ombre e cazzate varie, tutto bianco, tra poco solo nero. ho voglia di pugnalarmi. sento il frastuono delle bombe oltre la finestra, il frastuono che bussa al mio guscio, apprensione che filtra dai pori del soffice vetro. vibrano le alte mura di troia attorno alla mia stanza, sono nudo e affilato come una lama, troppo nudo e affilato per il mondo. non voglio persone nel raggio di mille chilometri, le cuffie sparano forte nelle mie orecchie, se avessi un corpo probabilmente ora tremerebbe. mi ritrovo ad abbracciare le mie ginocchia, rannicchiato quasi in posizione fetale, sento il gelo siberiano che viene dal midollo. mi isolo all’interno della mia crisalide, le ali e le ossa ripiegate, sento il profumo di una marcia funebre, con le lacrime agli occhi chiamo la mia splendida dama ottocentesca, solo Lei può valicare le mie mura.

martedì 18 settembre 2012

Rimbaud


Ho incontrato Rimbaud in un sogno, sedevo con lui ad un tavolino all’aperto, in una modesta pizzeria chissà dove. Lui era vecchio, settant’anni o forse più. Abbiamo parlato, io ho parlato con Rimbaud, poi quando si è stancato di stare seduto, con la sua citroen squalo mi ha portato a visitare un’immensa cattedrale tutta bianca, sperduta nel deserto. Era notte fonda, eravamo soli.

Gli ho chiesto cosa pensasse del Rimbaud scrittore, del Rimbaud che tutti noi conosciamo. Mi ha detto che anche lui vede quel Rimbaud come una persona distaccata da sé, una persona che non c’è più. Il Rimbaud che noi conosciamo è il ragazzino con una splendente e avvampante forza interiore, ciò che scriveva altro non era che quella divampante forza che gli bruciava dentro le vene. Era un ragazzino semplicemente odioso, una vera canaglia, irriverente nei confronti di tutto e tutti, un ragazzino insopportabile. Quando gli ho chiesto delle sue numerose fughe di casa ha sorriso, per qualche momento è stato in silenzio con il mento un po’ sollevato e lo sguardo perso chissà in quale infinito, poi ha detto che era sempre quella fiammeggiante e incontenibile forza interiore a far sì che non stesse mai fermo. Quando gli ho detto che oramai è considerato all’unanimità uno dei massimi scrittori di tutti i tempi, con la semplicità di un anziano che ne ha vista tante, mi ha detto che era solamente un ragazzino con dentro un intero sole, con dentro un inferno urlante e scomposto, era una brace sputata dal cuore dell’inferno. “Ora”, mi ha detto, “quello che hai davanti è solo un rugoso pezzetto di carbone freddo, che ruzzola stancamente nei sogni di qualche anima trasognata”. Questo è solo un frammento del mio incontro con Rimbaud, un incontro che non speravo di fare, un incontro che mai scorderò. 

lunedì 17 settembre 2012

ho riflettuto un po’ sul commento “pensavo che il tuo eroe fossi tu”. quelli che reputo i miei eroi sono in realtà i miei grandi eroi, ma tutti quanti non fanno parte della quotidianità, non sono persone di cui possa sentire la voce, le vibrazioni delle loro parole, le pulsazioni dei loro pensieri. per quel che concerne la quotidianità io non scherzo mica quando dico di essere la persona più interessante che conosco. anche perché io posso guardarmi nel profondo, quello che gli altri possono vedere di me è solo la punta dell’iceberg. sì, mi considero il mio piccolo e unico eroe tangibile, concretamente percepibile con la mia carne, il mio sangue e tutto il resto. sono una persona di cui vado fiero, temprato da molte più cose di quanto la gente che mi conosce possa immaginare. la mia unicità, la mia indissolubile relazione con la mia splendida dama ottocentesca, che accetto con forza e coraggio, la scelta di essere un pagliaccio solo part-time fanno di me il mio piccolo eroe. gli eroi sono persone che si differenziano dalla gente comune, si elevano al di sopra della mediocrità e del grigiore imperanti. io mi sento decisamente disgiunto dal resto degli umani, questo fa di me un piccolo eroe. e gli eroi sono sempre tristi e soli. diceva lo scrittore “un eroe è chi fa quello che può”. in questo senso non ho alcun dubbio, sono il mio piccolo eroe.

domenica 16 settembre 2012

parole estemporanee… scritte un po’ alla cazzo, scritte con volatile e superba leggerezza… non saprei scrivere altro… la luce del giorno disturba i miei pensieri, per sanguinare, di giorno, devi crearti la notte dentro ma ora gli schiamazzi tutt’intorno al tendone disturbano i miei pensieri, con finta delicatezza il cervello è costretto a mentire, una subdola violenza che appesta tutta l’aria circostante… anche ieri ho intravisto la morte negli occhi, anzi, più che negli occhi nell’aria attorno alla mente di un uomo che sa di avere i giorni contati. nessuno come me sa cogliere le sfumature di un silenzio pregno di apprensione, tormento, sofferenza. non c’è carità o compassione nella mia percezione semplicemente…. vedo cose che molti altri non vedono. più dei soldi, più del sesso, più dell’amore, la morte colpisce l’emotività delle persone, colpisce come una freccia acuminata, dritta e precisa nel bersaglio, una breccia perforante senza sbavature. tutti rigidi e tribolati davanti alla notte più intensa, una marea di insonni che tentano di scacciare l’abbraccio di un sonno che spaventa nella sua inevitabilità. 

giovedì 13 settembre 2012

pensieri della sushi-girl che odiava il pesce


mentre tra sé e sé canticchiava “show me the way to the next sushi-bar…   … I tell you we must die...”pensava che un giorno, chissà, avrebbe potuto fare un piccolo e solitario tour di locali sushi e, ovviamente, mangiucchiare solamente i bocconcini di riso; sarebbe stato un gesto di spensierata anarchia, un piccolo gesto per mandare a fare in culo il mondo. ora, invece, si trovava in un sushi-bar con alcune amiche e sì, mangiava solo i bocconcini di riso, ma il fatto che si trovasse lì rappresentava l’opposto di mandare a fare in culo in mondo. se era lì era per soddisfare la necessità che ha la maggior parte degli umani, la necessità di socializzare, di far parte di un gruppo, di sentirsi accettati. la medesima azione, mangiare solo bocconcini di riso in un sushi-bar, poteva significare una cosa e il suo esatto contrario, semplicemente a seconda che la si compisse in solitudine o in compagnia. odiava il pesce e in quel genere di locali si mangia soprattutto pesce, e nei ristoranti si va soprattutto per mangiare, ok, ma a lei andava semplicemente di uscire di casa e di stare in compagnia, doveva sentirsi una stupida per questo? o forse doveva sentirsi semplicemente un essere umano? pensò che gli umani ne fanno parecchie di cose stupide, e la maggior parte delle volte non se ne rendono conto. era un ritrovo di persone che amano mangiare il pesce crudo ma a lei interessava chiacchierare, passare un po’di tempo con le amiche, sapere di non essere sola. se si trovava in un sushi-bar, lei che odiava il pesce, era solo perché era un essere umano. e ogni bocconcino di riso che mangiava sapeva di umanità. gli stessi bocconcini di riso, comprati in un take-away e mangiati in solitudine tra le proprie quattro mura, avrebbero avuto un sapore del tutto differente, avrebbero avuto il sapore dell’isolamento, dell’abbandono, della solitudine. il contorno, le mura, l’edificio, possono dunque mutare il sapore di un bocconcino di riso? si chiedeva questo, la sushi-girl, quando una domanda di una sua amica la dissuase dai suoi pensieri “tu, Mara, sei un acquario, vero?”.

mercoledì 12 settembre 2012

il capitano Achab


Quel maledetto demonio dalla pelle bianca mi ha persino rubato il titolo, se prendete in mano il libro, stampato in copertina non troverete il mio nome ma il suo, la mia nemesi che ha prosciugato la mia vita fino al midollo, maledetta muta usurpatrice! Non le bastava l’osso della mia gamba, e la mia vita intera. Ma il vero personaggio del romanzo, quello con sangue, rabbia e una gamba mozzata, quello sono io, cari miei, il capitano Achab. Molti di voi penseranno che sia cosa da pazzi solcare i mari alla ricerca di una sola balena, ma la mia era una missione per cui avrei dato la vita, era una missione di morte che avrei portato a termine anche se mi avesse condotto nei bollenti mari dell’inferno, e se satana in persona avesse provato ad arrestarmi avrei trafitto anche lui con la punta del mio rampone! La mia sete di vendetta era così lancinante che se non l’avessi soddisfatta avrebbe prosciugato ogni fibra del mio corpo, e della mia anima. Riversai il mio cieco furore nei confronti di quel demonio bianco sulla quarantina di uomini che ubbidivano ai miei ordini, trasformai quella ciurma in un concitato esercito di guerrieri pagani, smaniosi tutti quanti di sconfiggere il demonio che io gli avevo additato, “morte a moby dick!” era la nostra unica parola d’ordine, l’unico comandamento della nostra religione pagana. Qualcuno obbiettò che eravano in mare per cacciare balene e non per inseguire la vendetta privata del loro capitano, “quanto ci frutterà al mercato di Nantucket la sua vendetta, capitano?”. “Per tutte le tempeste degli oceani!” gli dissi, “siamo uomini, siamo marinai, siamo guerrieri, non siamo banali contabili! Che ci vadano i commercianti al mercato, noi siamo marinai e il nostro posto è questo e inseguiremo quel demonio dalla pelle bianca sulle due facce della terra, sino ai mari dell’inferno, se necessario! Morte a Moby Dick, morte a Moby Dick!”.

lunedì 10 settembre 2012

i miei eroi


Vi presento i miei eroi. Certe volte sento dire “è un vero maestro, le sue parole ti fanno capire tante cose, ti aprono la mente…”. Si tratta sempre di persone di cui non mi frega un cazzo, gente come Tiziano Terzani, Marco Travaglio, Briatore o, peggio ancora, Fabio Volo, Vasco Rossi e persino Jovanotti. Vabbe’, ognuno ha gli eroi che si merita. I miei eroi sono persone che m’insegnano qualcosa, magari stando anche in silenzio, voglio dire, non sono solo le loro parole e il loro agire a toccarmi, è il loro modo di porsi davanti alla vita, il modo di non arrendersi di fronte ai subdoli e conformisti comandamenti che ci vengono sbraitati o sussurrati sin da quando nasciamo, da genitori, insegnanti, critici, colleghi e benpensanti di ogni specie. Spesso queste persone, i miei eroi intendo, hanno avuto una vita difficile, proprio per il loro non arrendersi. E poco importa se vincano o perdano, importa che non si siano arresi. E combattere contro gli sbraitanti, o i sussurranti, quasi sempre ti relega ad una vita da emarginato, da incompreso se non da folle. Diceva il filosofo “ gli uomini più simili e ordinari sono sempre stati e sono in vantaggio, quelli più eletti, quelli più raffinati, più singolari, i più difficilmente comprensibili restano facilmente soli, soggiacciono, nel loro isolamento, alle sciagure, e di rado si trapiantano”. Io aggiungo che gli eroi sono sempre tristi e soli. A loro modo sono tutti dei romantici, molti hanno conosciuto madama sofferenza, alcuni sono stati contrassegnati come pazzi, delinquenti, drogati, fanatici, estremisti. Ma tutti hanno vissuto con passione. E non si sono arresi.Quasi tutti sono personaggi tormentati e spesso i loro tormenti hanno trovato una valvola di sfogo in una forma d'arte, diceva il poeta "una passione sfrenata per l'arte è un cancro che divora ogni cosa".
Ve li presento semplicemente e brevemente per come li vedo io, ve li mostro in una sorta di fotogramma scattato dai miei occhi, niente più. Una breve, essenziale immagine immediata come uno sguardo. Se volete approfondire qualcosa di loro cercate su wikipedia, o sui libri. La mia è solo un’occhiata, un colpo d’occhio che vi ho voluto mostrare. Ammetto che mi sarebbe piaciuto dilungarmi su ognuno di loro ma anche la sinteticità di un semplice fotogramma può avere il suo fascino. 

domenica 9 settembre 2012


sono soffice e dilatato come la creatura  di un sogno. che palle doversi sforzare di essere equilibrati! forse amo così tanto la solitudine solo perché così non devo sforzarmi di sembrare equilibrato. da solo faccio salti e tuffi stupefacenti, percorro deserti e cieli, mi pugnalo il cuore  se mi va, mi nutro di buio, mi disseto con parole musicali, squarcio a morsi un fiore, e se mi va parlo, magari scrivendo, ma parlo come va a me, me ne frego del sole, della compagnia, delle mie stesse ossa. il mare che ho dentro a volte è così cupo e fondo, avete mai visto il mare dal ponte di una nave che naviga distante dalle coste? è così nero e profondo che incute timore. io a quel timore ci ho fatto l’abitudine, non smette di infondere paura, d’accordo, ma l’abitudine rende più…. non so, non trovo le parole. non più coraggiosi, e nemmeno più freddi e insensibili, nemmeno più miopi o incoscienti. forse un po’ tutte queste cose, forse, semplicemente, non sono bravo a scrivere. non abbastanza, tutto qua.
da qualche parte stasera, nella mia città, una ragazza che odia il pesce è andata a mangiare in un sushi-bar. ha mangiato solo il riso, come un assetato che lecca la buccia di un frutto maturo e non ne assapora la polpa succosa. una ragazza che odia il pesce e va in un sushi-bar è pura poesia, è autolesionismo vissuto con splendida leggerezza. “la sushi-girl che odiava il pesce”, mi piace tantissimo come titolo. c’è un’esotica sensualità controbilanciata da un tocco di odio, una coppa di veleno servita con un ombrellino colorato come ornamento. la notte della città inghiotte con le sue luci impure, con i suoi rumori polverosi, una bocca da qualche parte inghiotte il riso scartando il pesce. il locandiere dagli allungati occhi lastricati di un nero ardente disse “i miei piccoli cigni bianchi e fiammeggianti si fermeranno davanti alle finestre della casa ricca di conchiglie e si specchieranno come spiriti in un giorno freddo con pochi colori”. lei, la sushi-girl, spirituale orchestra in un banchetto di lapislazzuli, continuava a scartare il pesce e ad inghiottire solo i bocconcini di riso. processioni di corpi malati per le vie, un campanile esala i suoi ultimi sospiri, un castello rivela segreti ad orecchie stonate. la sushi-girl, per tutta la sera, ha mangiato solo il riso.

sabato 8 settembre 2012

nessuno vuole leccare le mie ferite? la mia pelle trasuda sangue e sudore, sofferenza che viene a galla. la sofferenza di un pagliaccio smaschera sempre una grande tristezza, colpisce tanto perché è imprevedibile, quasi inconcepibile. credo di averlo già scritto in un’altra occasione, mi vedo disteso come il cristo morto del mantegna, il mio corpo abbandonato in un giaciglio solitario, nessun volto a versare lacrime o elargire uno sguardo sincero, profondo e addolorato. non sono morto, la mia pelle traspira una sofferenza che nessuno può toccare, una specie di veleno che mi è stato dato in dono dalla nascita. adoro quando mi sento così, estremamente vulnerabile e al contempo forte, duro e fragile, solo come uno specchio abbandonato senza nessuno di fronte. se raccontassi queste cose, della mia amicizia con la mia splendida dama ottocentesca, mi sentirei dare dei consigli per abbandonarla, per normalizzarmi, “mediocrizzarmi”, consigli tendenti, in sintesi, ad una più robusta applicazione di cerone e nasino rosso, applicazione magari costante. come si dice, la cura è peggiore del male. fare il pagliaccio mi ucciderà, ne sento sempre più il peso. vorrei essere libero, vorrei liberarmi…

mercoledì 5 settembre 2012


la mia splendida dama ottocentesca è raggiante nella sua grazia e nel suo pallore. è nella stanza con me, a piedi nudi, il suo abito di un bianco che non appartiene a questo mondo. sono seduto sul pavimento, lei in piedi in un angolo della stanza, io scribacchio queste parole, ogni tanto sollevo lo sguardo che si perde oltre ogni confine del mondo, ogni tanto incontro i suoi occhi, neri, lucidi e profondi. e dolci. una dolcezza trascendentale, mi guarda come una bellissima e giovane madre guarderebbe la sua amatissima creatura. mi ha visto crescere, senza assillarmi non mi ha mai abbandonato, la sua presenza, il suo sguardo su di me è ciò che mi rende differente. Lei è un po’ una morte ma senza la falce, un po’ l’angelo custode della mia anima, una silenziosa consorte delicata e amorevole. quando esalerò l’ultimo respiro la sua mano lambirà la mia fronte gelata, le sorriderò e lei mi prenderà per mano, e non mi sentirò solo. gli umani saranno già distanti anni luce. sarò leggero e bellissimo e nessuno vedrà mai la mia bellezza. ora sono meravigliosamente, candidamente solo, la grazia della mia splendida dama è una silenziosa pioggia di petali bianchi, il suo sguardo mi dice che prima di sprofondare nel buio, stanotte, mi bacerà sulla fronte e terrà alla larga tutti gli stronzi ronzii di questo mondo. sono un fantasma, sogghigno pensando al nasino rosso e al cerone abbandonati per stanotte nella specchiera del mio bagno. sono solo, tendo la mano alla mia splendida dama ottocentesca…

c’è qualcosa nel vento, stanotte. chissà da dove arriva e quante cose ha sorvolato prima di giungere qui. sento qualcosa, qualcosa di indefinitamente vivo, impalpabile, invisibile ma appena percettibile. forse una sensazione frutto della mia immaginazione, forse no. qualcosa di vivo aleggia nell’aria, stanotte, qualcosa di vivo che è stato morto, una rarefatta miscela di vivo e di morto. il cuore di ogni persona ha i suoi morti. anche se magari si tratta di persone che non sono neanche morte per davvero, semplicemente sono diventate sorde e mute, in una parola irrimediabilmente lontane.ognuno ha tastato con mano il feroce tocco di un addio. forse quelli più crudeli sono quelli non detti, non celebrati, quelli taciuti, fiammelle che lentamente perdono luce e calore e vita, smettono di danzare e muoiono.gli addii, come la morte, hanno il loro fascino.

domenica 2 settembre 2012


ci vuole coraggio per scegliere di non essere amati. in realtà le cose non sono proprio così, per il coraggio va bene, ma per quanto concerne l’amore avrei da ridire. non si rinuncia all’amore, salvo in rari casi dettati dall’attaccamento alla libertà o al proprio Io. quindi non è all’amore che si rinuncia bensì alla sua rappresentazione scenica. l’amore è cosa talmente rara, almeno per quel che riguarda gli esseri intelligenti, quelli insomma che sanno distinguere il gioiello prezioso dalla patacca, l’amore dalla sua rappresentazione scenica. per rinunciare alla messinscena ci vuole comunque coraggio, una forza fatta di onestà con se stessi, trasparenza d’animo, rifiuto di vedere, guardandosi allo specchio, uno sconosciuto, o il proprio viso coperto, se non da una maschera, almeno da un sottile velo di accettazione di un compromesso. ci vuole forza d'animo per mantenersi puliti, per non infangarsi. paradossalmente, invece, quasi sempre chi sceglie di restare pulito viene visto come uno sfortunato con un po’ di fango addosso. e alla fin fine, come diceva il poeta, “l’amore non ti salva dal tuo destino”. quest’angolino virtuale delle volte rassomiglia ad un palchetto su cui salire e fare la propria predica, così, a ruota libera, infischiandosene dell’uditorio, parole inanellate seguendo istinto, suggestioni, intelligenza, sensazioni. un’individuale jam session di parole. mmmmm quest’ultimo concetto mi piace, un’individuale jam session di parole. dovrei appuntarmelo da qualche parte. ah no, lo sto già appuntando, non sto pensando, biascicando pensieri, sto scrivendo, biascicando parole scritte, uff… 

sabato 1 settembre 2012


Mi sveglio dopo un dilatato sonno senza voci, io pallida e scellerata fatina immersa in un buio sarcofago ravvivante, le formichine stronze che camminano sul vostro suolo del cazzo non mi sfiorano nemmeno. Mi sveglio bellissima e un poco spiegazzata, stiracchio la mia immacolata pelle diciannovenne, una fresca doccia pungolante ravviverebbe questo splendente fiore solitario schiusosi in un monolocale al dodicesimo piano. Gironzolo a piedi nudi sul marmo, lo specchio mi regala una Cry dal volto assonnato, la cascata di lunghi capelli neri sulle sottili spalle delicate, lo sguardo nero e lucido esageratamente penetrante, impudente, urticante. Sono bella e ho voglia di affrontare il mondo, con impudenza e distacco, vado a fare due passi nel vostro mondo. Ma prima una doccia. Prima ancora accendo lo stereo e Courtney mi canta Jennifer’s body, alzo il volume, mi scolo mezzo litro d’acqua d’un fiato, mi stiracchio e duetto sgraziata e insolente con la voce di Courtney, guardo dalla porta-finestra e una luce grigiastra illumina case, tetti, automobili e persone, dovrebbe essere tarda mattinata, di quale giorno non ne ho idea, canto e gironzolo con le braccia spalancate che dimeno come ali squilibrate, coulotte nere e una cortissima t-shirt bianca che finisce sopra l’ombelico, sorrido per me stessa e sollevo lo sguardo verso il cielo di cemento, gironzolo per la stanza con la faccia verso il soffitto, ho voglia di uscire e camminare senza vedere nessuno, inizia Miss World e canto passando le mani tra i capelli, scuoto la testa, sorrido e canto maleducata movendomi scomposta, sorrido perché mi sento bella, perché vado a sputare in faccia al mondo, perché non rispondo alle vostre domandine del cazzo, vado per le strade a spargere la mia indifferenza. Ora doccia.