lunedì 22 luglio 2013

un lungo pomeriggio d'estate

è un pomeriggio privo di data, fuori un grigiore luminoso, sole caldo estivo dietro un cielo che finge di essere autunnale, aria calda, mi vengono in mente i pomeriggi estivi di qualche secolo fa, quand’ero adolescente, a quei tempi i pomeriggi estivi erano interminabili, duravano decine e decine di ore, non finivano mai, uscivi, ti sedevi in qualche angolino di cemento baciato dall’ombra e chiacchieravi distrattamente con la consapevolezza che davanti si prospettavano decine e decine di ore di aria calda e scenografia da paesino immerso in una siesta, uno di quei paesini dei film western, tranquilli e soporosi almeno fino a quando non arrivano i cattivi a sconquassare quel velo di apatia. in giro c’eravamo solo noi adolescenti, stravaccati per terra, immersi nello stagno della nostra noia giovane e distaccata. la sera, dopo una doccia, ci si abbigliava in maniera dignitosa, una manciata di gel sui capelli e ci si tuffava nel mare della gente, alla scoperta e alla ricerca di quell’universo che rimescolava continuamente gli ormoni nelle nostre vene, l’universo femminile. ma durante quei pomeriggi vestivamo panni trasandati, pantaloni di tute ginniche tagliati con le forbici, pantaloncini da calcio, magliette vecchissime e scolorite, eravamo in un angolino di cemento baciato dall’ombra, la civiltà non ci interessava. ora quei pomeriggi sono lontani, accantonati in un angolino all’ombra della memoria.

ora sono stravaccato sul pavimento bianco, abbigliato in maniera splendidamente incivile, la civiltà è chiusa fuori oltre la finestra, loreena mckennitt nell’aria ombrosa del mio salotto, vedere questo pomeriggio che pensa ai pomeriggi che dicevo poc’anzi mi fa pensare al vecchio e il mare di Hemingway. stravaccato in un angolino di bianco baciato dall’ombra di un tetto perduto tra un milione di tetti tutti uguali e rossicci e accaldati. mi alzo per bere da un grande calice di vetro dell’acqua tiepida, l’acqua fresca di un frigorifero sarebbe troppo civile, sorseggio l’acqua e mi spingo fino al corridoio dove c’è uno specchio, vedo un vecchio e un giovane, mi sorrido, un sorriso in bianco e nero, mi siedo nuovamente sul pavimento, abbraccio le mie ginocchia e poso su di esse il mento, osservo queste parole che sono tante goccioline che compongono una nuvola che muta forma, cresce, s’ingigantisce, volteggia alta perduta in un angolino di cielo di un lungo pomeriggio d’estate.

rileggo le parole scritte poco fa e non cambio nemmeno una virgola, se cambiassi anche solo una parola non sarei più io, penso a quanto adoro scrivere “in presa diretta”, penso quanto possa essere interessante per voialtri leggere di me che sto seduto sul pavimento, penso ciò e vado avanti. mi viene in mente ora una storia letta in un romanzo, tempo fa, probabilmente una storia inventata dall’autore del romanzo: Salvador Dalì e sua moglie Gala sono vecchi e innamorati, possiedono un coniglio a cui sono molto affezionati, il coniglio non si separa mai da loro. Dalì e Gala sono in procinto di partire per un viaggio e discutono su cosa fare del coniglio, sarebbe un problema portarselo dietro per tutto il viaggio e sarebbe un problema affidarlo a qualche persona di fiducia in quanto il coniglio si fida solo di loro e con altre persone diventa schivo e introverso. il giorno successivo Gala prepara il pranzo, i due si siedono a tavola e mangiano di gusto almeno fino a quando Salvador si rende conto che ciò che sta mangiando è carne di coniglio. allora corre in bagno e vomita la carne di quella che era la sua adorata bestiolina. Gala invece si sente soddisfatta perché ha interiorizzato la bestiolina, ora l’adorato coniglietto faceva parte di lei e le accarezzava le viscere, ciò che aveva fatto con quel coniglio era molto più che fare l’amore. non so perché mi sia venuta in mente ora questa storia ma così come mi è saltata in mente così l’ho riversata su questa pagina, scrivere in presa diretta, adoro farlo.
associazione libera d’idee: pensando al coniglio di Dalì e Gala mi viene in mente una cosa che mi fa tornare ai tempi degli interminabili pomeriggi estivi adolescenziali. a quei tempi uno dei nostri miti era il film antropophagus, un b-movie uscito nel 1980 e che un mio amico si era procurato in vhs. in questo film c’è una scena, che ci faceva ridere parecchio, in cui un mostro si ciba di un feto e, alla faccia dei moderni effetti speciali, il feto dilaniato dal mostro era vistosamente un coniglio senza pelle eheheh. fine dell’associazione libera d’idee.

cambio cd e a loreena mckennitt succede suzanne vega, il telefono rimane sempre spento e nero, entra nella stanza un’arietta calda soffiata dal mondo che vuole ricordarmi la sua esistenza, come se non fossero sufficienti i rumori degli operai che lavorano alla costruzione di una palazzina poco distante. c’è una canzone di suzanne vega intitolata the queen and the soldier. è un lungo dialogo tra un soldato che non vuole più combattere per la sua regina perché non comprende più il senso della guerra. il soldato si reca nel castello dove dimora la sua giovane regina e, una volta accolto da lei, cerca di spiegarle che non combatterà mai più perché ora aborrisce la guerra e non ne comprende il senso. la regina ascolta e sembra triste sotto la sua bella corona dorata. tutto farebbe supporre un finale romantico invece, alla fine della canzone, il soldato lascia la stanza della regina e “altrove qualcuno obbedisce agli ordini della regina e uccide il sodato”. ho sempre apprezzato quel finale disincantato, dal sapore terribilmente realistico e inimmaginabile. per un attimo sorrido perché, facendo un miscuglio dei miei pensieri, vedo la giovane regina che si butta a terra e dilania con i denti un coniglio scuoiato e sanguinolento.

mi alzo per sgranchirmi le gambe, arrivo in cucina e noto che lo sportello del freezer è chiuso male. ma non è stata una mia disattenzione. forse non sapete che il mio frigorifero è stato fabbricato ai tempi di giorgio guglielmo federico di hannover, ovvero ai tempi della prima rivoluzione industriale. comunque, dato anagrafico a parte, da due o tre giorni il mio freezer è occupato per metà da due lastrone di ghiaccio, una saldata alla base e una al soffitto di quella che oramai sembra una vera e propria caverna dell’era glaciale, con tanto di stalattiti e stalagmiti di ghiaccio. il 50% dello spazio del mio freezer è occupato dal ghiaccio che, non accontentandosi dello spazio interno del freezer, ora sta debordando all’esterno, ragion per cui lo sportello non si chiude bene. ma perché vi racconto ciò? be’, la ragione sta nelle madonne di Raffaello (la Madonna del cardellino ad esempio, o la Madonna della seggiola). in molti pensano che per non annoiare le persone, e mai vorrebbero annoiarle perché ognuno sogna in cuor suo di essere interessante, affascinante e divertente, in molti pensano che per non annoiare le persone bisogni dire o fare qualcosa di sensazionale, bizzarro o strampalato. ma questo è un pensiero che può scaturire solo da menti mediocri. le madonne di Raffaello non hanno niente di sensazionale se non la loro sensazionale Bellezza. quindi, non sentendomi obbligato a raccontarvi qualcosa di eccezionale, vi racconto quello che ho visto poco fa recandomi in cucina, lo sportello del mio freezer chiuso male. oltre alle sensazioni raffaellesche il mio freezer per metà ricoperto di ghiaccio mi fa pensare ad una mente completamente squadrata e perfettamente geometrica che, per una rivelazione divina, assume plastiche e morbide fattezze degne di barbapapà. gli esserini spettatori paganti del mio circo quotidiano hanno menti talmente squadrate che, qualora venissero folgorate da un’ispirazione divina, produrrebbero quantità di ghiaccio suddivise in molteplici microcubetti tutti simmetrici e perfettamente identici. a dire la verità ora non voglio pensare al circo. a dire la verità. la verità a volte modifica la percezione che abbiamo delle cose. qualche secolo fa, avevo pochissimi anni, ero un bambino di cinque o sei anni, discutevo con due o tre amichetti sul fatto se le donne producessero o meno delle scoregge. e mentre dissertavamo su tale filosofico argomento uno dei bambini giunse illuminante e potentemente chiarificante con la voce della verità. “qualche giorno fa io ho sentito mia madre fare una sonora scoreggia!”. quell’affermazione illuminante e gravida d’indiscutibile verità mise fine all’intellettuale dibattito e fece sì che vedessi, da quel momento in poi, in maniera diversa la madre del mio amichetto. non l’avrei mai più rivista come la vedevo prima. potenza della verità.

da un po’ di tempo dormo male e i miei sogni ne risentono, sono così numerosi e frammentati, incompleti pezzettini d’immagini poco fantasiose, mi mancano quei bei lunghi sogni così simili a film slargati e melodiosi come le salmodie delle processioni estive religiose. anziché prolungati e ispirati lungometraggi il mio inconscio produce tanti spot pubblicitari. se ogni tanto il mio inconscio non si risiede sulla sedia da regista giuro che lo prendo a calci nel culo. prendere a calci nel culo il proprio inconscio. una perversione degna del più spirituale dei leopold von sacher masoch che abbiano mai calcato questa terra. mi alzo, accendo una sigaretta, sorseggio un poco d’acqua tiepida dal calice di vetro a buon mercato e mi sgranchisco ancora le gambe gironzolando per la casa come un sonnolento leone in gabbia. così come l’acqua del bicchiere anche il pavimento è tiepido e anche l’aria che entra dalla finestra. le lancette dell’orologio alla parete girano decisamente a rilento, forse sono riuscito a ricreare uno di quei pomeriggi estivi adolescenziali. ho creato dal nulla, nella sacralità delle mie pareti, uno stralcio di adolescenza. mi sento quasi come il dottor frankenstein. o il dottor jekyll. doppia erezione letteraria. una sirena, no niente di mitologico, una sirena d’ambulanza mi distrae dai pensieri sui miei sogni. come diavolo osa un’ambulanza rompere la quiete del mio pomeriggio estivo adolescenziale? chi diavolo osa stare male nel mio pomeriggio estivo adolescenziale? non lo saprò mai. o semplicemente in quell’ambulanza non c’era nessuno. la sofferenza ci pone faccia a faccia con la nostra solitudine. quando soffriamo il nostro dolore si frappone fra noi e le altre persone come una specie di cuscinetto, un’intercapedine che attutisce le voci, le carezze, le parole di conforto. vabbe’, io il contatto con la mia solitudine non lo perdo mai ma io sono, grazie a Dio, un caso disperato. la mia solitudine, la mia bellissima solitudine figlia della mia tristezza che è figlia della mia diversità, la mia solitudine io la chiamo la mia splendida dama ottocentesca. la mia splendida dama ottocentesca è così bella e premurosa nei miei confronti, non mi abbandona mai, come penso spesso “mi accompagnerà fin dentro la fossa”. quando sarò in punto di morte la mia splendida dama ottocentesca mi darà il più bel bacio della mia vita, ne sono sicuro. Lei, pur essendo esclusivamente mia e solo mia, è anche così universale, credo sia la mia vera madre. credo potrei essere geloso di Lei. si può essere gelosi solo delle cose preziose che ci appartengono così intimamente. come diceva lo scrittore, la gelosia è una malattia dell’anima. mai vorrei curare la mia anima, me la porterò così com’è fin dentro la fossa. dopotutto, se non è oppressa dal cerone e dal nasino rosso, la mia anima è in grado di produrre miele come un’ape indisturbata. be’, si fa per dire.


mi distoglie dai miei pensieri il rumore dell’ascensore che giunge al mio piano. la tizia dell’agenzia che tenta di affittare l’appartamento adiacente al mio. sonoro clicheggiare della chiave nella serratura e, la parete che separa il soggiorno in cui ora mi trovo dall’appartamento suddetto, probabilmente è sottile quanto la membrana timpanica di una farfalla, un attimo dopo aver spalancato la porta ecco la tizia dell’agenzia che pronuncia la più prevedibile, inutile e poco fantasiosa frase della storia dell’umanità: “ecco, questo è l’appartamento!”. una simile mancanza di fantasia sarebbe un motivo più che valido per andare via senza neanche vedere l’appartamento. l’assenza di fantasia per un’anima credo sia come l’assenza di ali per una farfalla. “ecco, questo è l’appartamento!”. la fantasia della tizia dell’agenzia è probabilmente più arida del sahara senza neanche una piccola oasi di cervellotica visione fantastica. mi auguro che l’appartamento adiacente al mio resti ancora sfitto per due o tre secoli, a meno che non lo affittino tre o quattro giovani ragazze svedesi che un giorno suoneranno alla mia porta chiedendomi lo zucchero o il sale ed io spalancando la mia porta rivelerò “ecco, questo è il mio appartamento!”. se non puoi avere una vicina di casa geniale o almeno estremamente intelligente che sia almeno alta, bionda e svedese. abbandono le mie scandinave fantasie immobiliari e mi alzo per sgranchirmi nuovamente le gambe.
a piedi nudi sulla sabbia del mio deserto personale. non ci sono persone nel mio deserto. diceva lo scrittore che la solitudine è il campo da gioco di satana. mi viene in mente una canzone di polly jean harvey “… sono nata nel deserto, ci sono stata per anni… … ho scalato le montagne, attraversato i mari, mi sono fatta cacciare dal paradiso, mi sono fatta umiliare, mi sono dovuta inginocchiare, ho preso in giro il diavolo, maledetto il buon dio, distrutto il paradiso…”. una tizia che curò la prefazione ad una mia raccolta di parole mi fece notare che quando scrivo uso spesso la parola e l’immagine del deserto. decisamente vero. devo essere nato nel deserto o devo comunque esserci stato per anni. poi come un meteorite sono caduto in un mondo in cui imperano balli latinoamericani, stupide finzioni televisive, banali personcine simili a ritagli di carta che temono ogni folata di vento. s’illudono che attorniandosi di altri ritagli di carta diventino invulnerabili alle raffiche di vento. le parole. le parole altro non sono che folate di vento nel deserto. 

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